E’ ancora aperto fino a metà giugno in Toscana il bando per la conservazione del suolo e della sostanza organica attivato sull’operazione 10.1.1 del Psr.
Rispetto agli anni scorsi è stato attivato solo l’intervento relativo alla cosiddetta bulatura, cioè alla trasemina di leguminose nei cereali e in totale sono stati stanziati a livello regionale 400mila euro per i primi tre anni dei cinque previsti dal contributo. Per gli ultimi due anni bisognerà aspettare gli stanziamenti che saranno previsti dalla prossima programmazione del Psr.
Possono fare domanda come beneficiari tutti gli agricoltori (ai sensi dell’art. 2135 del Codice civile) che conducano almeno 1 ettaro di seminativi sul territorio regionale della Toscana.
Per fare domanda l’intervento deve essere attuato su almeno il 20% dei seminativi totali dell’azienda e deve essere presentato un piano di coltivazione.
L’aiuto prevede un contributo di 200 euro ad ettaro.
I beneficiari a cui verrà approvato l’aiuto devonogarantire:
una traseminasui cereali autunno vernini in fase di accestimento e prima della levata con specie leguminose
l’utilizzo della sola seminatrice eventualmente abbinata ad erpice per la trasemina
il divietoassoluto di diserbo sulle superfici oggetto di impegno a partire dalla semina del cereale
la tenuta dei registri delle operazioni colturali e del magazzino messi a disposizione da Artea sul quaderno delle registrazioni.
Inoltre a partire dal 15 maggio 2021 è vietato l’utilizzo del principio attivo glifosate, in tutta l’Ute, l’Unità tecnica economica, oggetto di impegno.
Le domande devono essere inviate su Artea entro il 15 giugno 2020.
A partire dagli anni ’60, l’Italia ha visto una drastica diminuzione della produzione di legumi secchi tra cui fagioli, lenticchie, ceci, piselli, fave. L’andamento negativo che ha avuto dirette conseguenze anche sugli scambi commerciali da e verso l’Italia negli ultimi decenni, con il picco peggiore raggiunto negli anni 2010-2015, sembrerebbe aver cambiato rotta anche grazie alle scelte alimentari.
Oggi l’Italia registra buoni trend di crescita nella produzione nazionale di ceci e lenticchie, collocandosi all’ottavo posto in Europa con circa 200mila tonnellate di prodotto secco.
Questo è uno dei dati emersi dal Report sui legumi e sulle colture proteiche nei mercati mondiali, europei e italiani realizzato dall’Istituto di ricerca Areté per conto dell’Alleanza cooperative agroalimentari.
Italia, la domanda si soddisfa all’estero
Lo Stivale dipende fortemente dalle importazioni di tutti i legumi per soddisfare la propria domanda.
Lo attestano con evidenza i dati che riportano come, nel 2017, il rapporto import/consumo presunto è stato del 98% per le lenticchie, del 95% per i fagioli, del 71% per i piselli, del 59% per i ceci.
Rispetto alla media europea, nell’anno 2016, l’Italia ha importato il 65% del suo consumo, contro il 33% della Ue.
Dal 2015 superfici e produzioni sono tornate ad aumentare, mentre nel 2017 l’Italia è stata il secondo produttore di ceci (dopo la Spagna) e il quinto produttore di lenticchie.
Europa, ancora dipendente dalle importazioni
La produzione europea di legumi secchi sfiora i 5 milioni di tonnellate. La classifica dei primi paesi produttori vede la Francia al primo posto con 788mila tonnellate, seguita da Regno Unito, Lituania, Polonia e Germania (2016).
Anche per l’Europa il trend produttivo è stato molto altalenante.
Negli ultimi 10 anni gli ettari coltivati a legumi dell’Ue hanno registrato un notevole aumento a partire dal 2013, a seguito delle nuove misure di greening della Pac attuate nel 2015.
La produzione europea di fagioli ha visto un buon incremento, in linea con l’aumento della domanda di consumi interni e ha consentito di ridurre le importazioni al 65% del consumo presunto. Viceversa, per quanto riguarda ceci e lenticchie, la Ue dipende con percentuali ancora molto alte dalle importazioni.
India, primo produttore nel mondo
Record di 82 milioni di tonnellate per la produzione mondiale di legumi raggiunto nel 2016. Tra i paesi sviluppati forte è stata la crescita in Nord America e in Australia.
Nei paesi in via di sviluppo, invece, è stata l’Africa a registrare un enorme aumento della produzione. In questo caso i legumi hanno rappresentato una componente essenziale dell’alimentazione e quindi dell’attività agricola.
Al contrario, la produzione in Estremo Oriente di legumi si è quasi dimezzata poiché le economie che hanno recentemente aumentato il proprio benessere tendono ad abbandonarne la produzione e il consumo.
Nel 2016, così come negli ultimi anni, la distribuzione geografica delle superfici coltivate a legume è stata ancora molto concentrata in Asia e in Africa. L’India è di gran lunga il principale produttore mondiale, con il 32% dell’area globale e il 21% della produzione.
Scambi commerciali, i principali esportatori
Nel 2016, il commercio globale di legumi è stato di 17,2 milioni di tonnellate. I flussi commerciali hanno confermato la tendenza degli ultimi anni che hanno visto i paesi sviluppati emergere come principali esportatori mentre i paesi in via di sviluppo sono stati i principali importatori.
Nord America, Australia e Ue hanno infatti rappresentato il 67% delle esportazioni globali di legumi. L’Asia è l’area di maggior import con il 72% delle importazioni globali e l’India è il più grande importatore di legumi al mondo, rappresentando quasi il 20% delle importazioni globali.
Sulla misura 4.1, sono previsti incentivi per le aziende agricole che puntano su resilienza ai cambiamenti climatici e produzioni di qualità. Per il progetto con capo azienda under 40 quota a fondo perduto maggiorata del 10%
Quaranta milioni di euro per investimenti nelle aziende agricole siciliane. Lo prevede il bando pubblicato dalla Regione Siciliana, attraverso l’assessorato dell’Agricoltura, a valere sulla misura 4.1 del Programma di sviluppo rurale 2014-2020. Si tratta di una delle procedure più attese dal comparto agricolo, grazie alla quale sarà possibile acquistare macchine e attrezzi agricoli, per trasformazione, confezionamento e commercializzazione di prodotti; realizzare e ristrutturare allevamenti e punti vendita aziendali,sale degustazioni; e ancora serre e tunnel per colture protette e florovivaismo; operare miglioramenti fondiari e sistemazioni idraulico-agrarie: recinzioni, terrazzamenti, recinzioni, viabilità aziendale ed elettrificazione.
Una quota dei finanziamenti sarà destinata all’agricoltura delle isole minori: Pantelleria, Eolie, Egadi, Ustica, Lampedusa e Linosa, che erano rimaste escluse dai bandi emessi dalla precedente programmazione.
Beneficiari i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoltori professionali, sono previste premialità per gli investimenti inerenti le produzioni certificate di qualità e che puntano alle strategie di adattamento al cambiamento climatico, come la realizzazione di laghi collinari.
Tra le novità importanti del nuovo bando la sburocratizzazione e lo snellimento delle procedure amministrative. Determinante sarà infatti il ruolo dei tecnici progettisti: con le “perizie asseverate”, nelle quali saranno riportati la fattibilità degli interventi, i punteggi e l’attestazione di conformità in materia di edilizia ed urbanistica, eviteranno agli agricoltori di dover chiedere pareri e autorizzazioni, che in passato hanno causato aggravio di costi e una notevole dilatazione dei tempi di presentazione delle domande.
“Il Governo regionale ha mantenuto fede all’impegno preso – afferma l’assessore per l’Agricoltura Edy Bandiera – rispondendo alle reali esigenze dell’agricoltura siciliana e semplificando le procedure. Si tratta di un bando molto atteso, grazie al quale le aziende agricole potranno ammodernare le loro strutture, migliorandone reddito e competitività ma soprattutto, a fronte del massimale di 5 milioni di euro previsto dal precedente bando, abbiamo previsto un tetto massimo di 300mila euro a progetto, rispondente alle reali esigenze del tessuto produttivosiciliano, fatto per lo più da piccole e medie aziende”.
“La percentuale di contributo a fondo perduto prevista è pari al 50 per cento, elevabile di un ulteriore 10 per cento, nel caso in cui i proponenti siano giovani con meno di 40 anni d’età. – conclude Bandiera, che sottolinea anche come – La cantierabilità del progetto, che ha costi elevati, dovrà essere prodotta solo se e nel momento in cui il progetto verrà finanziato”.
La Commissione europea ha dato oggi il via libera al decreto legge imprese che consentirà di attivare interventi in favore del settore produttivo per fare fronte alle conseguenze dell’emergenza coronavirus. Con due decisioni distinte Bruxelles ha dato luce verde alle misure a sostegno dell’economia del valore di circa 200 miliardi e allo schema di garanzie destinato ai lavoratori autonomi e alle piccole e medie imprese.
E’ disponibile on line sul sito “fondidigaranzia” il modulo per la richiesta di garanzia fino a 25mila euro, che il beneficiario dovrà compilare e inviare per mail (anche non certificata) alla banca o al confidi al quale si rivolgerà per richiedere il finanziamento, informa il Ministero per lo sviluppo economico dopo il via libera della Ue al Dl Imprese.
Il Mise e Mediocredito Centrale, gestore del Fondo di Garanzia, stanno inoltre lavorando insieme all’Abi per rendere attivi e disponibili, in tempi brevi, tutti i sistemi informatici e la modulistica necessaria.
Produzione e commercio dei legumi in Italia e nel Mondo
Il 2016 era l”Anno internazionale dei legumi”. Il coordinamento delle iniziative connesse all’evento è stato
affidato alla FAO, organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura.
Il richiamo di attenzione verso i legumi ha diverse importanti motivazioni planetarie, come richiamate
dai massimi esponenti di ONU e FAO in occasione dell’apertura dell’Anno:
– importante contributo alla nutrizione e alla sicurezza alimentare;
– sostenibilità ambientale ed elevato adattamento, grazie all’alta biodiversità, alle diverse
condizioni pedoclimatiche;
– apporto naturale di azoto al terreno con riduzione dalla dipendenza dai concimi sintetici;
– miglioramento della fertilità del terreno anche in termini di biodiversità (insetti, batteri, ecc.);
– proficuo reimpiego dei residui di coltivazione per una sana alimentazione degli animali in
allevamento;
– elevato apporto di proteine, a basso costo e con limitato impiego di acqua rispetto a quelli di
origine animale, e altri salutari nutrienti, per l’alimentazione umana e la prevenzione di diverse
patologie (cardiovascolari, gastroenteriche, diabete, anemia, cancro);
– remunerazione del prodotto superiore da due a tre volte rispetto ai cereali, a miglior sostegno
dei redditi degli agricoltori.
Si sottolinea, peraltro, che i molteplici effetti positivi dei legumi sono ancora sottovalutati, e che è quindi
utile incrementarne la produzione e il commercio, e incoraggiare utilizzi nuovi e più intelligenti lungo
tutta la catena alimentare.
Le valutazioni dell’ONU e della FAO sono evidentemente rivolte soprattutto ai Paesi in via di sviluppo,
ma trovano recente più incisiva rispondenza anche nei Paesi ad economia avanzata in considerazione
dei mutamenti climatici e della crescente attenzione per una più sana e razionale alimentazione. Nel
caso di molti Paesi, fra cui l’Italia, i legumi rappresentano inoltre un aspetto importante della tradizione
gastronomica, da valorizzare anche dal punto di vista turistico. A tal proposito è opportuno ricordare
che i legumi sono un componente importante della Dieta Mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO
“patrimonio culturale immateriale dell’umanità” dal 2010.
Produzione di legumi in Italia
Dagli anni Sessanta ad oggi (tabella1), la produzione italiana complessiva delle principali specie di legumi
da granella si è ridotta drasticamente (-81%). Ma la flessione produttiva, mentre per fagioli e fave
presenta un andamento sostanzialmente progressivo, per il cece e la lenticchia registra un minimo tra il
1991 e il 2001 e una ripresa nel periodo successivo, e per il pisello è notevolmente irregolare.
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Anche la produzione di legumi freschi ha segnato un decremento consistente, ma sensibilmente
inferiore a quello dei secchi (-44%). Tuttavia, se confrontiamo i valori massimi, registrati fra il 1971 e il
1981, con quelli attuali, la flessione produttiva sale al 54%.
Le cause dei descritti andamenti di produzione possono attribuirsi ai seguenti fattori:
– riduzione complessiva del suolo disponibile per le coltivazioni agricole;
– marcata riduzione del numero di aziende di piccola dimensione tradizionalmente dedite a
questo genere di produzioni.
– contrazione della domanda di legumi per effetto dei mutati stili alimentari.
Importazione ed esportazione
Nell’arco di tempo preso in considerazione, la differenza in quantità fra esportazioni ed importazioni è
passata da un saldo negativo di circa 4,5 mila tonnellate a poco meno di 250 mila tonnellate (tabella 3).
Le importazioni sono cresciute costantemente fino a raggiungere, nel 2015, un valore prossimo ai 236
milioni di dollari; le esportazioni hanno registrato un andamento irregolare attestandosi recentemente
intorno a una media annua di circa 12 mila tonnellate ed un valore di 15 milioni di dollari.
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Il consumo “apparente”
Sommando le produzioni e le differenze tra import ed export (tabella 5), si può risalire all’andamento
del “consumo apparente” di legumi in Italia (nel quale rientra anche la quota di prodotto destinata
all’industria di trasformazione e ai consumi di non residenti). Dal 1961 ad oggi, il consumo apparente
pro capite si è più che dimezzato passando da quasi 13 kg a poco più di 6 kg.
C.A. procapite (kg) 12,8 9,2 7,0 6,2 6,1
Fonte: elaborazione Centro Studi Confagricoltura su dati ISTAT
Il legume maggiormente consumato in Italia, nel 1961, era la fava seguita dal fagiolo; oggi (2015) il
legume maggiormente consumato è il fagiolo, in gran parte grazie alle importazioni, seguito dalla fava
(tabella 6). Il legume maggiormente esportato, nel 1961 era il fagiolo, nel 2015 è stato il cece.
Valorizzazione della qualità
Negli ultimi anni, la produzione di alcune specie di legumi ha registrato una ripresa (2011-2015 tabella
1): quella di ceci è raddoppiata, e sono cresciute quelle di lenticchie (+31%) e di fagioli (+3,4%). La
produzione di lenticchie, dal 2001 al 2015, è più che triplicata.
Questa recente inversione di tendenza sembra da attribuire principalmente a tre fattori:
– la maggior diffusione di informazioni sulle proprietà salutistiche dei legumi;
– la valorizzazione di alcune varietà di legumi, attraverso i riconoscimenti DOP (Denominazione
d’Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta);
– la riscoperta, nell’offerta ristorativa, di ricette gastronomiche tradizionali a base di legumi.
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La produzione di legumi nel Mondo
La produzione complessiva di legumi nel mondo è stata, nel 2014, poco superiore ai 77,6 milioni di
tonnellate (tabella 8). A confronto con i periodi precedenti, la crescita è stata costante: rispetto al 1961
è quasi raddoppiata. Altro è successo in Italia e nell’Unione Europea: da noi la produzione di legumi è
diminuita quasi dell’80%; nell’UE è cresciuta del 3,3%. Segnali molto diversi vengono, nel periodo in
esame, da altri Paesi ad alto sviluppo economico: la produzione di legumi, nel Nord America, è cresciuta
di 7 volte, in Australia e Nuova Zelanda di 64 volte. In aumento anche la produzione dell’Africa (poco
meno di 5 volte), mentre la produzione dell’Estremo Oriente si è quasi dimezzata.
L’andamento della produzione di legumi nei principali Paesi agricoli dell’Unione Europea, fra il 1961 e il
2014, evidenzia comportamenti molto differenti (tabella 9). Italia, Spagna, Grecia e Romania, sia pur con
dati intermedi alternanti, registrano consistenti diminuzioni; Francia, Germania, Regno Unito e Polonia,
pur sempre con alternanze nei periodi intermedi, registrano crescita. In particolare l’Italia si caratterizza
per una flessione della produzione del 79%, precedendo la Grecia (-73%), la Romania (-71%) e la Spagna
(-49%).
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It=Italia – Fr=Francia – Sp=Spagna – De=Germania – Uk=Gran Bretagna – Gr=Grecia – Pl=Polonia – Ro=Romania
Fonte: elaborazione Centro Studi Confagricoltura su dati FAO
Conclusioni
La produzione e il consumo di legumi rappresentano un indicatore che va oltre le valutazioni di mercato,
essendo in gioco fattori culturali e politici riconducibili all’orientamento diffuso degli stili di consumo
alimentare, alla competenza agronomica degli agricoltori, alle buone pratiche di salvaguardia
ambientale.
Sotto questo profilo, è evidente come, in un quadro globale di incremento della produzione di legumi,
economie che hanno recentemente conquistato un rilevante benessere, come quelle dell’Estremo
Oriente, tendano ad abbandonarne la produzione e il consumo (-45% fra il 1961 e il 2014). Al contrario,
nei Paesi poveri, i legumi costituiscono sempre più un componente essenziale dell’alimentazione e
quindi dell’attività agricola, come testimoniato dall’incremento di produzione dell’Africa (+5 volte fra il
1961 e il 2014).
Fra le aree del Pianeta a consolidato benessere economico, l’andamento della produzione di legumi ha
seguito, in poco più di mezzo secolo (1961-2014), evoluzioni molto differenti: altalenante ma
sostanzialmente invariata nell’Unione Europea, in forte crescita in Australia e Nuova Zelanda (+64 volte),
in crescita più contenuta nel Nord America (+7 volte).
L’Italia, nello stesso periodo, è, fra i principali Paesi agricoli dell’Unione Europea, quello caratterizzato
dalla più rilevante riduzione della produzione di legumi (-79%). E’ più che dimezzato il consumo
“apparente” di legumi (produzione + import – export) che attualmente, nonostante il forte incremento
delle importazioni (16 volte), è di circa 6 kg procapite rispetto ai quasi 13 kg del 1961.
L’allarmante diffusione di fenomeni di perdita di fertilità, degrado e desertificazione dei suoli agricoli nel
nostro Paese (stimati da ISPRA nel 21% della superficie nazionale), suggerisce peraltro la reintroduzione
di pratiche di rotazione colturale che coinvolgano la periodica coltivazione di leguminose.
Sovesci e cover crop estive: uno strumento per l’agricoltura conservativa……ma anche bio. O più genericamente: “ecologicamente intensiva”.
Molti trovano questa definizione fumosa, provocatoria, dato che nella percezione comune il termine “ecologico” è piuttosto sinonimo di estensivo, di meno produttivo, di “lasciar fare”. Questa definizione, scelta apposta da Michel Griffon per la sua natura interrogatoria e sorprendente, si è rivelato corretto, e denota un approccio agricolo radicalmente innovativo. Con l’AEI, l’input principale non è più la meccanizzazione, i fertilizzanti o i fitofarmaci, ma diventa l’ecologia: è dunque logico l’utilizzo di “intensivo” per diminuire fortemente il ricordo agli input classici che disturbano gli equilibri naturali e costosi, ma che conserviamo tuttavia nella cassetta degli attrezzi, per quando non dovesse esserci ancora una soluzione ecologica. Si tratta dell’energia viva in opposizione all’energia fossile, della diversità in opposizione alla monotonia, di incoraggiare le strade per controbilanciare le situazioni indesiderate in contrapposizione ad approcci di eliminazione, soppressione o eradicazione. L’AEI non è un miglioramento o un restyling delle pratiche convenzionali, ma una concreta rottura con il passato, una visione innovativa: non è altro che un punto di visto dello spirito scientifico, agronomico ma comincia anche a essere messa in pratica negli itinerari TCS e SD (semina diretta), con differenze sensibili quando confrontate con parcelle vicine e con colture simili (vedere link in fondo al testo).
Produrre tanto o addirittura più che nei sistemi convenzionali con molto meno lavoro, fitofarmaci, fertilizzanti, impatti negativi sull’ambiente ma anche rischi tecnici ed economici non è più una moda o un illusione, ma una realtà con degli esempi ben concreti. Ciò dimostra perfettamente la differenza e la potenza di questi nuovi approcci che desideriamo estendere ad altre colture e produzione agricole.
Un sovescio di grano saraceno (in un appezzamento di una decina di ettari) in un’azienda orticola dell’alta padovana (a fianco ad un appezzamento poco più piccolo dove si stava trapiantando del radicchio) e il raggiungimento della piena fioritura del trifoglio alessandrino (seminato à la volée sulle stoppie del frumento il pomeriggio stesso della mietitura), mi danno l’occasione di riportare questo articolo di Frédéric Thomas (questo il link dove si potranno vedere delle foto di colza associato a cover gelive), liberamente tradotto.
Rimane ancora molto da sperimentare e conoscere, ma la curiosità non manca, e buoni esempi in giro se ne vedono sempre più. Anche in questo piccolo territorio agricolo.
Leguminose (da granella) come pilastro per l’agricoltura sostenibile?
Che primavera strana. Anzi, strana è dire poco: incredibile! Chi avrebbe mai detto, appena un mese alla fine di febbraio, dopo circa una settimana dall’esplosione della Covid-19 anche in Italia, che ci saremmo trovati nel bel mezzo di una quarantena, con delle giornate così calde e secche, appena interrotte da giornate con raffiche di vento che ti butta per terra?
I lavori nei campi non si sono fermati, e ci mancherebbe. L’isolamento sociale, per chi lavora la terra, non è un fatto così insolito: nelle cabine dei trattori e in generale nei campi solitamente non si ha molta compagnia! Anche stavolta quindi salta l’appuntamento di fine mese con le coperture vegetali. Non è saltato per niente quello in campo, con la semina di un bel campo dimostrativo a Scandolara, per il progetto Biofuture (PSR Mis. 16 sui Gruppi Operativi), ma è prematuro per parlarne, e le altre coperture vegetali stanno riprendendo bene attività. Manca solo la semina dell’ultima!
L’emergenza del miscuglio avena/veccia/pisello, a inizio novembre, su minima lavorazione
Stavolta quindi parlo di leguminose e proteaginose, ovvero di quelle leguminose che seminiamo per raccogliere (solitamente) il seme, la granella. Si tratta di un gruppo di piante piuttosto ampio in cui si distingue una parte vernina, la tribù delle Vicieae (di cui fanno parte una grande quantità di leguminose da granella quali Vicia faba, Cicer arietinum, Lens esculenta, Pisum sativum, Lathyrus sativus), assieme alla tribù delle Genisteae (Lupinus albus, L. angustifolius, L. luteus) e poi una parte più estiva, macroterma: la tribù delle Phaseoleae (Phaseolus vulgaris, Glycine max). Sono specie di coltivazione antichissima, probabilmente perché fu notata dai primi agricoltori la loro capacità di fornire semi conservabili e molto nutrienti.
Quest’anno era in programma di ritornare a coltivare un po’ di pisello proteico nel campo che è rimasto a sodo dall’autunno 2017 e che l’anno scorso era a soia. Una parte era già ritornata alla minima lavorazione, in assenza di attrezzature specifiche per seminare nella pacciamatura della segale dello scorso inverno e primavera. Un piccolo pezzo è rimasto invece, e rimarrà spero per molti molti anni su sodo, con una presenza sporadica di trifoglio, ginestrino e meliloto, seminati a spaglio nel mais 2018 (seminato in SDSCV, semina diretta sotto copertura vegetale) per coprire alcune fallanze dove le manovre del cantiere di spargimento del letame avevano calpestato troppo e impedito l’emergenza del mais. Una prima parte del campo è stata destinata alla riproduzione aziendale di qualche centinaio di kg di un miscuglio di avena, pisello foraggero veccia e facelia da utilizzare in prossime coperture vegetali, e quindi rimaneva poco più di metà campo da seminare. Condizioni meteo e alcuni problemi logistici mi hanno costretto ad attendere sino al 18 marzo per riuscire finalmente la prima semina 2020. Data l’epoca avanzata e data l’esigenza e la curiosità di riprodurmi anche altre specie, ho deciso che anche quella parte dell’appezzamento sarebbe stata coperta da un miscuglio ternario, sempre nella volontà di trebbiare il tutto. Pisello proteico, favino e stavolta, invece che una graminacea, una crucifera: il rafano decompattante noto come Tillage Radish, o Daikon.
La preparazione del miscuglio primaverile pisello/rafano/favino e la seguente taratura della seminatrice
Seminare a metà marzo con oltre 20 gradi e sudare in camicia fa impressione. Minacciavano pioggia pochi giorni dopo e anche se le capezzagne erano ancora umide, il terreno era in condizioni perfette: bello secco in superficie e ancora umido a 4-5 cm di profondità, dove è andato deposto il seme. Il rafano, col suo seme piccolo, ha avuto bisogno di meno umidità per emergere e dopo 10 giorni, nonostante il secco, il vento e l’abbassamento delle temperature (che su qualche pianta è arrivato a far danni!) ha già i cotiledoni fuori. Favino e pisello invece sono in fasi diverse in base alle condizioni del terreno, con in generare un inizio delle fasi di germinazione un po’ ovunque.
In molti si interrogano sulla validità di coltivare una coltura a redditività non elevata, e tutto sommato difficile per la gestione delle infestanti, dell’epoca di semina o ancora della raccolta. In realtà non è poi così difficile come si crede, eccetto la raccolta: la pianta a fine ciclo può allettarsi facilmente, e così comportare la perdita di parte del prodotto, e ancora i baccelli possono aprirsi in pochi giorni quando il prodotto è maturo. Insomma, è una coltura che in quella fase richiede una certa attenzione. Per ovviare al problema dell’allettamento e della competitività sulle infestanti, è nata l’idea di consociarlo. Già in molti lo fanno, spesso con orzo, ed è quindi solo questione di scegliere la pianta da accompagnargli in base al clima o ad altre esigenze.
Seminare senza perturbare il suolo e la sua vita
Ma il vero motivo per continuare e perseverare nel coltivarli è per il fenomenale effetto che hanno sulla fertilità del suolo, molto più di qualsiasi soia (però meno, purtroppo, delle leguminose foraggere che sono uno strumento di fertilità potentissimo). E non solo sul terreno hanno effetti, ma anche sulle emissioni e sul clima, aspetti che in agricoltura conservativa ci stanno molto a cuore.
Terres Inovia sta portando avanti il progetto Strategia Nazionale Basso Carbonio, per creare un’etichetta “Basso Carbonio”.
Fa’ come il favino: investi sulla radice!
La fertilizzazione azotata, minerale o organica, rappresenta dal 70 al 90% dei gas a effetto serra (CO2 e N2O) emessi nel ciclo di vita di una materia prima agricola fino alla sua uscita dal campo. Da qui l’interesse per culture che non necessitano d’input azotati. Solo le leguminose possono essere autonome, grazie all’azoto-fissazione simbiotica dell’azote dell’aria, un processo biologico naturale che non è fonte di N2O.
In un contesto di forte richiesta da parte dei consumatori e degli allevatori di proteine vegetali e di fronte alla necessità di diversificare i sistemi dei seminativi per una maggiore sostenibilità, le leguminose da granella ricche in proteina hanno quindi dei vantaggi innegabili. In effetti, un ettaro di pisello, favino, lupino o soia emette circa il 70-80% di gas climalteranti (circa 2,2 teqCO2) in meno di un ettaro di frumento, principalmente grazie all’assenza della fertilizzazione azotata (dati AgriBalyse). Inoltre il consumo di energia non rinnovabile (fossile e nucleare) rapportata all’ettaro è fortemente ridotta: 46% per il pisello, 58% per il favino e 68% per il lupino. La soia è mediamente del 13% a causa dei consumi per l’irrigazione che è comune ed è piuttosto energivora.
Nel solco: pisello, lombrico, rafano. Sopra: un tappeto di trifoglio.
Delle misure in campo hanno confermato le basse emissioni legate alla coltura del pisello proteico. Le sue emissioni di protossido di azoto misurate durante tre campagne, tra marzo e luglio, erano le stesse di un frumento non concimato, e significativamente inferiori di frumento e colza concimati con azoto. In autunno, alla mineralizzazione dei residui, le emissioni sono state trascurabili e simili sotto il frumento indipendentemente dalla precessione.
Degli studi condotti invece a scala di rotazione colturale hanno permesso di stimare nel 16% la riduzione delle emissioni di gas (prima e nel campo), nel 13% di energia non rinnovabile nel 23% di azoto, per tutto l’insieme della rotazione quando venga introdotto un 20% di pisello proteico in sistemi cerealicoli.
Qualche dato da trattenere in conclusione:
Granella di proteaginose = 70% di gas climalteranti in meno rispetto ad altre materie prime agricole
Coltura di pisello = da 5 a 10 volte meno gas climalteranti in campo rispetto a colza o frumento
Rotazione con 20% di pisello proteico = 13% di gas effetto serra in meno rispetto a di sistemi cerealicolo senza pisello
Un pisello intercalato tra due frumenti = 13000 MJ e 2,2 t eqCO2 risparmiate in 5 anni
Coltivare del pisello proteico e altre leguminose da granella contribuisce a raggiungere gli obiettivi “basso carbonio” di riduzione delle emissioni e mitigazione dei cambiamenti climatici, ma risponde anche alle esigenze nazionali (francesi come italiane) di proteine vegetali.
Cotiledoni di rafano emergente
Alla fine nella notte qualche goccia di pioggia è arrivata. Ora speriamo che tutto nasca bene senza problemi, e là fuori non resta alle piante che fare il loro instancabile lavoro: la fotosintesi, instaurando al contempo quel complesso e ancora sconosciuto dialogo microbico con i batteri azotofissatori che sono così importanti per la salute e la vitalità di un suolo!
Triticum aestivum – La salute di una pianta ben nutrita
Tempo di iniziare a pensare alla concimazione dei cereali a paglia invernali. Più a sud della Pianura padana, anche su semine tardive, ci hanno già pensato, mentre lungo le sponde del Po la situazione è un po’ più arretrata, anche se non poi di molto, eccetto anche qua le semine molto tardive, che quest’anno si sono concluse nemmeno un mese fa.
I cereali, in particolare il frumento, stanno attraversando bene l’inverno, senza eccessive sofferenze. Il lungo periodo piovoso di fine autunno è stato seguito da un periodo piuttosto tiepido, che ha permesso di continuare un po’ di attività e riparare qualche danno, ma anche di continuare con gli accestimenti. Il freddo invece è stato molto incostante, con periodi (alcune giornate di seguito) anche molto fredde seguiti da altri più tiepidi, per la stagione. Tutto sommato quindi la vernalizzazione c’è stata, ma questi andamenti altalenanti delle temperature non sono indifferenti, anzi, potrebbero far dei danni seri, soprattutto se in futuro dovessero ampliarsi o in presenza di ritorni di freddo nei prossimi mesi.
Ma il 2020, lo ricordo, è anche l’International Year of Plant Health, e mi piace l’abbinamento, dopo 5 anni, con il 2015 che è stato invece dedicato al suolo e alla sua salute. E quindi di cosa preoccuparci, oltre che della semplice dose di nitrato ammonico da buttare nei campi in questi giorni (compatibilmente con Direttiva Nitrati, agibilità dei campi e condizioni meteo… tanto finché non piove non vale molto la pena entrare)?
Potremmo, anzi dovremmo, preoccuparci un po’ più ampiamente della salute della pianta, e per farlo occorre occuparsi della sua nutrizione, che parte dal suolo ma può eventualmente venire corretta e indirizzata con interventi mirati. È scontato ribadire con un suolo sano (assenza di malattie, biologiche o fisiche, come il compattamento), fertile (ben dotato di sostanza organica ed elementi minerali) e vivente (con una componente biologica sana e attiva, che media tra la componente minerale del suolo e quella bio-fisiologica della radice, un po’ come succede nel nostro intestino) darà risultati migliori, più costanti e sostenibili di tanti suoli massacrati tra arature, erpicature, concimazioni e trattamenti chimici pesanti.
Si sta delineando sempre con maggior chiarezza un nuovo approccio alla nutrizione delle piante e alla antecedente (solitamente) analisi del suolo e della sua fertilità. A partire dalla maggior importanza degli equilibri tra nutrienti, e non più alla loro abbondanza. La radice infatti non è un banale tubo poroso che mangia tutto quello che è solubile nei dintorni: ha affinità diverse per sostanze diverse, spende dell’energia per mantenere certi equilibri osmotici e non solo, e quindi perché non pensare che la pianta possa anche attivamente influire sulla propria nutrizione, e non solo viverla passivamente introducendo quello che è sciolto nell’acqua di cui si nutre.
In effetti fa una certa impressione che tra aria e acqua si colloca la quasi totalità degli elementi che costituiscono la biomassa di una pianta (C, H, O, N), anche se in realtà poi sono gli altri microelementi a fare una enorme differenza.
La rivoluzione verde, quindi, che tanto ha spinto sulla ricerca in campo chimico e genetico, oggi ha bisogno di vedere affiancate e riscoperte anche altre discipline, come la microbiologia, la fisiologia, la scienza del suolo e molte altre discipline fondamentali per lo sviluppo della Brown revolution.
John Kempf è uno dei principali ispiratori di questo nuovo approccio, e grazie anche al lavoro sui potenziali RedOx di Husson si stanno definendo molti nuovi parametri per valutare lo stato di salute della pianta attraverso analisi della linfa, in particolare del grado di acidità e di quello di concentrazione zuccherina. Questi due parametri (tre: ci sarebbe anche il RedOx, più complicato anche se sarebbe il più preciso indicatore) possono dare un’indicazione sullo stato di salute di una pianta e in particolare la sua predisposizione ad ammalarsi, ovvero a poter lasciare spazio a un attacco di un insetto o di un fungo patogeno (ma anche un virus o un batterio) senza essere in grado di rispondere efficacemente con le proprie difese. Sì, perché mi ricordo bene la discussione quasi filosofica del mio prof. di patologia vegetale che diceva che la malattia “è qualsiasi scostamento dalla condizione di normalità”, e anche se definire la normalità è tutt’altro che semplice, è molto semplice pensare che una pianta, normalmente, in natura, dovrebbe trovarsi in condizioni sane.
Tutto si basa sulla fotosintesi, ancora una volta. Se questa funziona bene, se la macchina fisiologica vegetale funziona a pieno regime, producendo zuccheri complessi e proteine, non restano in circolo né azoto né zuccheri semplici che potrebbero servire da nutrimento per gli insetti.
Al di là di prove come l’impiego di microdosi di zucchero (pochi grammi per ettaro) per tenere lontani insetti dannosi, sembra che la quantità interna di zuccheri, e la loro tipologia, possa essere un fattore importante. Gli studi di Harold Willis su un gran numero di piante e insetti dannosi, in particolare piralide, mostrano che gli insetti sono attratti da una concentrazione di zuccheri moderata, sintomo di una fotosintesi che non viaggia a pieno regime, perché quando la concentrazione aumenta, non attaccano più la pianta. E oltre alla quantità, il fatto che cambi anche la qualità degli zuccheri contenuti, magari in seguito a complessazione e traslocazione.
E cosa fare per migliorare attività ed efficienza fotosintetica di una pianta? Nutrirla correttamente!
Il primo livello della piramide della salute delle piante ideata da John Kempf è proprio il raggiungimento della fotosintesi piena, e per questo la pianta deve essere correttamente nutrita con un apporto ottimale di magnesio, ferro, manganese, azoto e fosforo. Il secondo livello è la piena attività della sintesi proteica, in modo che tutto l’azoto assorbito sia convertito in proteina al più presto.
E proprio sul tema dell’azoto, dato che il momento è quello giusto e già la scorsa volta avevo anticipato come le varie forme di azoto presente nel suolo influenzino la microbiologia, torno sul tema perché Kempf (ma anche Husson ha fatto approfondimenti molto belli) ha riassunto in poche parole la teoria di questo approccio alla nutrizione azotata:
«L’ideale per la pianta è assorbire aminoacidi e peptidi direttamente dal microbioma tellurico e nella forma quindi di metaboliti microbici. Al secondo posto per efficienza e per la maggior parte delle colture, l’azoto nella forma ureica, o amminica. La terza forma più efficiente da assorbire è l’ammonio, mentre l’ultima è il nitrato. Le piante usano una parte importante della loro energia fotosintetizzata per convertire il nitrato in aminoacidi e proteine. Quando il fabbisogno è coperto all’80% dal nitrato, la pianta impiega il 16% della propria energia per operare questa conversione, e anche 3 volte più acqua. Ma l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di sviluppare una popolazione e un’attività microbica in grado di fornire il 100% del fabbisogno azotato delle proprie colture, iniziando impattando di meno su di loro con le concimazioni» e la distruzione continua e il totale stravolgimento del delicato habitat del suolo vivente.
Tutto pronto per la semina dei piselli (nelle tre fasce centrali) e invece in quella in primo piano e in fondo prima della siepe, prossimi alla prima concimazione, con tanti prodotti e trattamenti per misurare la risposta delle piante.
Ma qual è, insomma, la ricetta giusta? Una, giusta per tutte le realtà, tutte le terre, tutte le colture, tutti i contesti climatici, non esiste. Esistono dei principi generali, delle regole e delle buone pratiche che vanno seguite e degli obiettivi che vanno perseguiti. Tra cui senz’altro quello di un suolo autofertile deve essere al centro delle ambizioni di ogni agricoltore che abbia a cuore la propria terra.
Le sol est le “matériau créatif” de la plupart des besoins fondamentaux de la vie.
William Albrecht, 1888-1974
Un ringraziamento a John Kempf, Loan Wacker di AgroLeague e a Marie-Thérèse Gässler che ha tradotto una bella pubblicazione sempre di Kempf per l’ispirazione
Coperture vegetali e agricoltura rigenerativa #3
Qualcosa, là fuori, timidamente si muove.
È stato sinora un inverno molto dolce e tiepido, troppo a percepirlo così, sulla pelle. Ora pare che questi ultimi giorni di febbraio saranno un po’ più freddi per frenare un po’ il desiderio di primavera delle piante, ma saranno i dati delle temperature, alla fine, a decretarne la posizione tra i più caldi della Storia. E allora anche se qualche giornata fredda c’è e qualche mattina un po’ più frizzante c’è ancora, le piante hanno già ben cominciato a muoversi, soprattutto le colture erbacee vernine, che hanno relativamente pochi mesi a disposizione davanti per poter crescere e maturare il seme.
Quindi anche stavolta una rapida panoramica di alcune coperture vegetali seguite in giro per il Veneto (e non solo), a partire dalla mia dopo mais, lanciata a spaglio nei residui e per ora non bellissima, anche se la copertura c’è. È rimasta piuttosto disomogenea, ma poi vedremo altre foto, qui eravamo ancora a inizio gennaio!
Nelle scorse settimane però c’è stato anche un interessante appuntamento, a chiusura del progetto BENCO (Mis. 1.2.01 del PSR Lombardia) che, come dice l’acronimo, mirava a dimostrare i benefici delle cover crop. Dopo i saluti dei padroni di casa, e in particolare del prof. Bechini di UniMi che ha introdotto il progetto, spazio alle relazioni tecniche, che partono da Perugia con il dott. Tosti. Il loro obiettivo era quello di studiare come l’impiego mirato delle leguminose potesse aumentare la fertilità dei sistemi biologici cercando di introdurre alcuni elementi come la copertura del suolo e la consociazione tra piante. In particolare due esperienze interessanti sono legate all’impiego di un sovescio misto orzo/veccia rispetto alle due piante singole, per ottimizzare la produzione di biomassa, rendere più efficace la cattura dei nitrati lisciviabili (grazie alla presenza dell’orzo) e anche più rapida ma senza esagerare, la cessione della fertilità della copertura vegetale sovesciata (grazie alla presenza di veccia). La seconda esperienza interessante è stata l’utilizzo del favino come pianta compagna del frumento, che è servita a fornire un servizio ecosistemico di fornitura naturale di azoto e aumento della biodiversità. La sua gestione è stata di distruzione meccanica, non senza qualche difficoltà legata alle tempistiche e modalità di intervento, che hanno dovuto trovare anche delle soluzioni meccaniche innovative.
Copertura vegetale tipo “Biomax” da un agricoltore biellese da anni in ACS.
A seguire, l’esperienza particolare del progetto CSA-MeS-BIO del CREA di Lodi, che ha prodotto anche un interessante libricino dove sono riportati tutti i dati e i dettagli della sperimentazione. Sperimentazione piuttosto complessa e difficile, soprattutto lavorando in un sistema di semina diretta sotto copertura vegetale, in bio. E infatti, 2 anni di sperimentazione non sufficienti per dare delle risposte definitive. I risultati sono largamente sito-specifici e difficili le generalizzazioni (effetto anno, località). Difficoltà in biologico accentuate dalla presenza di infestanti particolarmente difficili come la sorghetta da rizoma, il cencio molle, e altre tipiche di seminativi non in equilibrio. Le cover crop possono contribuire al controllo delle infestanti come parte di una strategia integrata, soprattutto su infestanti annuali poco aggressive, ma non sono la sola soluzione: rotazioni e false semine, corretta gestione delle colture da reddito sono strategiche. Inoltre è possibile la competizione con le colture da reddito da parte di cover crop seminate a fine inverno, ma in ogni caso dal progetto sono uscite indicazioni sulle più opportune date di semina e di terminazione delle cover crop autunnali, in generale per mais e soia: semina ultima decade di settembre/metà ottobre e terminazione da metà aprile. In larga parte comunque sono coperture vegetali monospecie o miscugli binari, più semplici da gestire (anche se la cosa non è così indiscutibile, si vedano il Biomax qua intorno e quello di fine articolo, per il mio futuro mais).
Il prof. Gemini Delle Vedove (UniUd) ci porta con l’immaginazione in una piattaforma di circa una ventina di specie, e due miscugli, in Friuli. Impossibile riportare in poche righe, qua, la mole di dati presentata, pur in una manciata di veloci minuti. Molto interessanti le analisi sulla fertilità messa in gioco dalle diverse coperture e da alcuni miscugli. Tenendo conto che anche questo è un contesto di agricoltura biologica (nel senso di assenza di concimazioni di sintesi e uso di erbicidi, non so se sia parcelle certificate). Riporto però solo alcuni commenti del prof., sperando di avere nei prossimi mesi occasione di andare a visitare questi bei campi dimostrativi. Veccia/favino/sorgo è il mix più usato dopo frumento e prima del mais. Favino è semigelivo e sorgo gelivo. Questo miscuglio produce meno biomassa di altre graminacee, ma apporta più azoto. Veccia/segale, il miscuglio più usato per terminazione con Roller Crimper, apporta 7 t/ha s.s. solo a fine maggio. Meliloto è anch’esso interessante per terminazioni a fine maggio (ma è costoso) mentre il pisello foraggero mantiene l’interesse anche per interventi anticipati e costi ridotti. Da considerare per il bilancio “azoto-aziendale”: con la fissazione delle Leguminose l’agricoltura (BIO e NON) diventa più sostenibile in
economia ed ambiente. E insomma, trovare nei miscugli o nella scelta della combinazione specie/epoca/coltura da reddito, è un difficile equilibrio tra gestione della fertilità, gestione delle infestanti, gestione della tecnica colturale. Tantopiù in bio, i grattacapi non sono pochi.
Torniamo in Veneto, con una delle coperture vegetali più belle del progetto Biofuture. Sarà un meraviglioso campo di radicchio l’anno prossimo!
Tocca al dott. Tadiello parlare invece del progetto di casa, il BENCO. Ero già stato a visitarne i campi sperimentali, in due delle 4 aziende che si sono prestate alla sperimentazione, tra cui quella di Landriano, a Pavia. Nel sito del progetto ci sono i dettagli delle varie prove, aziende, e annate. Riporto solo che le specie utilizzate sono state la veccia bengalese, l’avena brasiliana o strigosa (presente anche nel miscuglio della foto qui sopra) e ancora la senape, ormai tanto diffusa tra bresciano e cremonese e infine trifoglio alessandrino. Due leguminose, tutte e 4 (teoricamente) gelive, in tutti i casi dei testimoni non coperti e del mais coltivato in successione. Le leguminose sono state le minori produttrici di biomassa, e di conseguenza anche di azoto recuperato/prodotto. Biomassa che era intorno alle 2 t/ha nel 2017, con enorme variabilità tra siti e specie, più omogenea la situazione nel 2018 con qualche punta oltre le 3 t/ha con la senape a Orzinuovi. Le leguminose però hanno il vantaggio di poter produrre un po’ di biomassa (e azoto) anche in primavera, e compensare qualche inefficienza autunnale. E nonostante la diminuzione di azoto presente nel terreno rispetto al testimone nudo, la produzione di mais si è rivelata maggiore, a conferma che la fertilità che catturano è rimessa in gioco relativamente presto se il C/N non è molto alto.
Antichi, UniPi, ha riportato alcune esperienze di un interessante progetto europeo, IWMPraise, che si è occupato, dall’Europa del nord a quella più mediterranea, di gestione integrata delle infestanti. Il cuore della sperimentazione a Pisa è stato l’impiego del rullo crimper su cover di veccia e di segale, con diverse epoche di intervento, che è servito a confermare che l’efficacia è accettabile solo a partire dalla fioritura. Come aumentare l’efficacia dello strumento, però? Aumentando il peso, modificando la geometria delle lame, è possibile migliorare la macchina per arrivare veramente a pensare a un sodo glifosate-free, o ancor più senza alcun uso di erbicidi? Qualche semina si riesce, e anche con buoni risultati, ma la tecnica è ancora difficilmente generalizzabile, e le complicazioni e i compromessi che la tecnica impone, in certi contesti, farebbe perdere troppo rispetto ai vantaggi che apporterebbe. Ma di nuovo, senza entrare nei dettagli dell’efficacia del rullo Dondi usato a 3 differenti velocità di lavoro, e molti altri aspetti sull’efficacia nei vari casi, riporto che per l’ennesima volta è il miscuglio segale/veccia a produrre la biomassa maggiore, con un leggero incremento anche in termini di fertilità recuperata/prodotta, e in termini infine di efficacia come pacciamatura nel contenimento delle infestanti sia dentro alla copertura vegetale, sia nella coltura che segue.
Il testimone non trinciato è un disastro, tutto pieno di Stellaria e quasi niente di triticale. Per fortuna sono solo due file di mais… impensabile qui entrare con un rullo, senza diserbo.
E infine, l’intervento finale. Già con Delle Vedove si è parlato dell’elevata biodiversità esplorabile in tema coperture vegetali, e nella fitta tabella riportava il nome delle varietà, ma quasi mai si hanno le risorse per confrontare anche le varietà delle specie. E in fatto di pacciamatura (ma anche di gestibilità con macchine come il rullo crimper), si pensa spesso alla possibilità di usare l’allelopatia. Ed è proprio il turno del prof. Tabaglio, di parlarne. Purtroppo non ho il materiale, quindi riportare fedelmente i contenuti del suo intervento è difficile: districarsi a memoria tra gli allelochimici, varietà e sensibilità delle diverse infestanti è dura. Ma riporto un caso, tra le tante specie provate: quello della segale.
Diverse varietà sono state studiate, con diverse tecniche di gestione e su diverse infestanti. Ma se diverse di queste, tra le annuali, vengono ben controllate dal mulch di segale, grazie alla libera del composto BOA, il principale allelochimico della segale, è il caso dell’Abutilon che ha stupito, e giustamente il prof. ha ben definito questa infestante estiva annuale (non riportato).
Ma la cosa impressionante è che Abutilon theophrasti ha avuto delle germinazioni superiori sotto al mulch di segale rispetto al testimone senza pacciamatura! E questo è dovuto sia alle migliori condizioni che si verificano sotto cover (e lo sappiamo bene che sotto un bel mulch c’è un piccolo mondo felice, soprattutto se da mesi o anni non arrivano sconvolgimenti meccanici di nessun tipo); sia alla presenza di un sistema di detossificazione ben più efficace degli antidoti aggiunti in diversi erbicidi specifici per delle infestanti molto vicine alle colture su cui devono essere selettivi: si tratta della presenza di un fungo simbionte all’interno del seme, che detossifica e rende innocuo l’erbicida “Segalex”!
Ancora una volta, la natura colpisce per la propria capacità, le risorse che mette in gioco e le simbiosi che sono tanto trasversali e fondamentali, e che ovviamente dobbiamo conoscere, per poterle girare sempre più a nostro favore, renderle sinergie utili a noi agricoltori.
Insomma, là fuori comincia a muoversi qualcosa, anche in Italia. Poco, ancora, forse; con una visione ancora metodica, con tante specie singole, per esigenze di misurazione; con uno strano tendere verso il biologico, che complica però maledettamente le cose, e rischia di far desistere troppi dall’adottare questo potente strumento di rigenerazione del suolo. Insomma, c’è fermento, e questo conta.
Con il biomax in quest’ultima foto ho partecipato al concorso Sors tes couverts. Ora è tutto brutto e secco, ma là sotto c’è un fiorire di vita! In teoria martedì dovevano decretare il vincitore e invece è tutto rimandato, ma tanto non sono tra i finalisti! Anche se la copertura vegetale è piaciuta e mi ha dato l’opportunità di scrivere un articolo sulla situazione italiana, apparso sull’ultimo numero de La Marne Agricole, lo scorso 14 febbraio. Per chi mi legge qua, in italiano, niente di nuovo! Ma sempre bello scambiare con chi è molto più avanti di noi in questa rivoluzione agroecologica, la Brown revolution!
p.s.: in apertura una fascia fiorita seminata a bordura del campo dove c’era mais e ora la cover di triticale.
Triticumaestivum – Come scappare alle virosi grazie all’agroecologia.
Siamo in una situazione di reale emergenza, e anche se per fortuna non dobbiamo correre in strada allarmati (anzi è meglio muoversi il meno possibile, riducendo al minimo gli spostamenti anche se si sta bene), la situazione non è per niente bella. Tuttavia là fuori il mondo sembra proseguire piuttosto noncurante, e anzi molti altri problemi sono ben più inquietanti – abbiamo avuto l’ennesimo inverno tiepido e secco, e solo ora si sta ripristinando un po’ di acqua, anche in montagna per fortuna, ma la stagione è per l’ennesima volta “calda”.
Quindi anche se l’attenzione ora è tutta sul virus dell’anno, il SARS-CoV2 che sta purtroppo facendo vittime (per fortuna in gran parte guaribili) un po’ in tutto il mondo, è pur sempre l’anno internazionale dedicato alla Plant Health, e quindi ne approfitto per una digressione sui virus, delle piante.
Partendo con l’inquadramento generale ovviamente si parla dalla nomenclatura, che serve non solo a indentificare un virus, ma anche a classificarlo e quindi poterlo mettere in relazione con gli altri virus.
La nomenclatura dei fitovirus a livello di specie si compone del nome dell’ospite da cui è stato isolato la prima volta (non implica una relazione specifica del virus con quell’ospite) + malattia (sintomo principale) + virus.
Si passa alla morfologia: ogni specie virale è costituita da particelle (virioni) che hanno propria forma e proprie dimensioni. I virus fitopatogeni oggi conosciuti, riconducibili principalmente a 4 forme: Sferica o isodiametrica, diametro da 18 a 80 nm; Tubuliformi, ne esistono 2 forme: “a bastoncino rigido” (100-300 nm) e “a bastoncino flessuoso” (480-2000 nm); Bacilliformi, fra i fitopatogeni il virus del mosaico dell’erba medica formato da 4 pezzi quasi isodiametrici e i Rhabdovirus, tipicamente dotati di involucro lipoproteico; e infine i Geminati, a particelle doppie.
Ci sono delle peculiarità strutturali dei fitovirus, in quanto essi possono essere: monoparticella (l’entità infettiva è costituita da una sola particella); multiparticella (entità infettiva costituita da due o più particelle) aventi forma e dimensioni uguali (Cucumovirus) oppure diverse (Alfamovirus, Tobravirus).
Ultima delle parcelle della sperimentazione sulle concimazioni
Ci sono poi gli aspetti molecolari, del genoma. Conoscere il genoma virale serve a conoscere il processo infettivo.
Gli acidi nucleici possono essere DNA o RNA a singolo o doppio filamento, con la peculiarità che il ssRNA ha una polarità che può essere negativa o positiva. La maggior parte dei virus delle piante è ssRNA(+), senso positivo: ovvero la polarità dell’mRNA è pronta per dirigere la sintesi delle proteine. I virus a RNA(+) costituiscono circa il 70% dei virus. Seguono i virus a ssDNA (come i Geminivirus).
I fitovirus si distinguono anche per il modo in cui i genomi virali si organizzano:
1) virus monocomponenti (o monoparticella) a genoma indiviso (monopartito) o segmentato ma comunque tutto racchiuso in un unico virione;
2) virus multicomponenti (multiparticelle uguali o diverse nella forma e nella dimensione) a genoma segmentato (indicati genericamente: virus multipartiti).
Ma come affrontiamo i virus in ambito vegetale?
Per fortuna si conoscono in ambito vegetale molte resistenze genetiche per rispondere alle virose. Ovviamente si tratta di misure preventive e costitutive delle piante, che possono avere ottima efficacia ma, in condizioni di eccessiva pressione di selezione, in particolare dovute a una scarsa qualità della pratica agricola, queste resistenze possono venire superate dal virus e rapidamente vanificate.
Come gestire quindi le risorse genetiche per ridurre il rischio di insorgenza di nuovi ceppi?
La piramidazione dei geni è una risposta: essa consiste nel portare molti geni di resistenza nella stessa varietà/cultivar, e questo perché per superare i diversi geni, il virus ha necessità di mutare molti suoi geni con una probabile riduzione di fitness e quindi una minore diffusione di ceppi con mutazioni cumulate, ma anche un maggior tempo, impegno, e una probabilità di inferiore mutare efficacemente.
Parcellone del miscuglio vecchie varietà che sto moltiplicando per il 4 anno!
A questa si affianca la tecnica di miscelare le cultivar (come i miscugli presenti nelle due foto qui sopra, mentre la coccinella iniziale è su una delle quattro parcelle monovarietali di pre-moltiplicazione), seminando nello stesso appezzamento cultivar con differenti resistenze al fine di evitare che qualche virus si adatti eccessivamente nel campo, diluendo l’inoculo (una parte va su ospiti non compatibili e quindi vengono “dispersi”) e inoltre esercitando una minore pressione di selezione sui geni del virus. Miscele per esempio di cultivar di frumento (Trémie resistente a SBWMV; Soissons suscettibile a SBWMV) riducono la quantità di malattia da SBWMV nei genotipi suscettibili e la quantità di inoculo (minore quantità di zoospore virulifere formate nel terreno; riduzione della % di infezione nella cultivar suscettibile Soissons coltivata in miscela).
Come accennato, è importante anche la rotazione: mettere in rotazione le varie cultivar che portano varie resistenze aiuta a mantenere sempre bassa la pressione di malattia, non selezionando ceppi ricombinanti, o troppo aggressivi.
Questi sono solo alcuni rapidissimi accenni sulle generalità dei fitovirus e di alcune tecniche che possediamo per gestirli. Un aspetto fondamentale riguarda i vettori, ovvero quegli organismi che diffondono i virus e portano a infettare nuove piante. Con una panoramica sulle virosi dei cereali a paglia, dato che siamo nel periodo giusto per vedere i sintomi e in campo sono le colture più presenti, accennerò alla questione dei vettori.
Le forme presenti in Italia si possono dividere in due gruppi: trasmesse da vettore tellurico (striatura fusiforme, mosaico comune) o trasmesse da vettore animale (mosaico striato, nanismo)
Virosi trasmesse dal terreno al frumento, soil-borne wheat virus sono SBWMV e WSSMV. Il vettore è il protozoo Polymyxagraminis che media l’infezione: si possono trovare cellule radicali con all’interno le spore di conservazione (cistosori).
I virus del frumento soil-borne, ovvero che sopravvivono nel suolo, sono il WSSMV (wheat spindle streak mosaic, striatura fusiforme del frumento) che induce striature clorotiche allungate e affusolate (particolarmente evidenti negli stadi iniziali dell’infezione) e il SBWMV (soil-borne wheat mosaic, mosaico comune del frumento) induce un mosaico striato con ampie aree clorotiche (inizio macchie di seguito ampie striature parallele che confluiscono).
I principali sintomi indotti da SBWMV e WSSMV si manifestano con maggiore intensità fine inverno-inizio primavera (febbraio-marzo) con mosaici fogliari, nanismo e morie più o meno estese (variabilità dei sintomi in relazione suscettibilità varietale e andamento climatico). Sintomi iniziali (nanismo e mosaico) che tendono a scomparire, effetti finali (morte delle piante, diradamento, ritardo spigatura, minore resa quantitativa/qualità granella). Fra i frumenti vi sono diversi gradi di suscettibilità. Allo stadio di plantula, prima della levata, le foglie delle cv. suscettibili, tendono a diventare strette ad accartocciarsi e ad assumere tonalità violacee fino a rossastre e consistenza coriacea. Questi possono inoltre essere confusi con carenze di azoto (però riguardano tendenzialmente le foglie vecchie, contrariamente al virus), danni da freddo, ristagni idrici: quindi la sintomatologia visiva non è precisa per la diagnosi. Bisogna considerare lo stato complessivo della coltura ed eventualmente andare su analisi sierologiche o molecolari. Il mosaico comune a livello nazionale è più diffuso.
E infine parcelle monovarietali pre-moltiplicazione e file-spiga.
In annate favorevoli (autunni miti e piovosi e primavere relativamente fredde) per lo sviluppo della malattia, le varietà più suscettibili vanno incontro a morie invernali molto estese. P.graminis, a partire dalle spore di resistenza (rilasciate nel terreno in seguito al disfacimento dei tessuti radicali infetti), fa germinare i cistosori e produce delle zoospore che vanno ad infettare altre piante contigue, con un’espansione a macchia d’olio. La zoospora rilasciata riconosce il pelo radicale di frumento, vi aderisce e si incista, svuotando il proprio contenuto citoplasmatico nel pelo radicale; forma un corpo fruttifero che produce zoosporangi da cui si produrranno spore secondarie che potranno infettare altre piante. Polymyxa betae è vettore invece di un altro importante virus: quello dell’ingiallimento nervale necrotico della barbabietola da zucchero.
SBWMV è un Furovirus a RNA. WSSMV è un Bymovirus (Potyviridae) bipartito anch’esso ma il virione è composto di due tubuli flessuosi.
Dato che l’agente virale può persistere nel terreno conservandosi per parecchi anni nelle spore durevoli della Polymyxa, si possono avere due approcci:
In assenza di malattia, evitare semine precoci per evitare la finestra ottimale per la P. graminis tuttavia, se posticipare le semine può consentire la emergenza in suoli più freddi poco adatti alla Polymyxa, vi possono essere delle conseguenze sul ciclo colturale più breve e quindi le rese inferiori.
In presenza di malattia: avvicendamento delle colture per tenere l’inoculo basso, scelta di varietà resistenti che comporta nel tempo alla decontaminazione del suolo, uso di miscele di cultivar con diverso grado di suscettibilità alla virosi, adeguata fertilizzazione per favorire una certa fitness anche a piante suscettibili malate (risultati variabili in funzione del grado di malattia).
Virosi dei cereali trasmesse da vettori animali
Virus del nanismo giallo dell’orzo, BYDV, virus sferico la cui gamma di ospiti è molto ampia nell’ambito delle Graminacee, ha trasmissione via afide e insediamento nel floema.
Mezzi efficaci per contrastare la virosi da BYDV sono un corretto avvicendamento, anche se moderato negli effetti, ritardare l’epoca di semina sembra invece molto efficace (tentativo di fuggire al volo degli afidi, evitamento), però rimane il rischio di un inverno mite e il problema di un ciclo colturale più breve, infine la scelta di varietà tolleranti è molto efficace come la lotta chimica ai vettori, efficace solo se corretta.
Virus del mosaico striato del frumento (WSMV)
Ospiti soprattutto frumento, ma anche altre graminacee coltivate e spontanee. Virus flessuoso genoma monopartito, il cui vettore è Aceria tosichella che si muove passivamente e solo le ninfe sono capaci di acquisire il virus. In fine estate-autunno il vettore si sposta dalle graminacee spontanee e coltivate (“green bridge”) alle piantine di grano invernale: è questo il momento più rischioso. Il ponte verde è necessario per permettere agli eriofidi di riprodursi. Quindi la presenza di graminacee spontanee è rilevante, e in aree dove si susseguono frumenti invernali e primaverili è ancora più rischioso. Andamento estivo-autunnale piovoso favorisce il vettore, che può essere efficacemente controllato con pratiche agronomiche, sfavorendone la sopravvivenza tramite gestione residuo colturale e delle spontanee, ma operando ovviamente anche una corretta rotazione colturale e pianificazione del territorio. Il vettore è troppo piccolo per essere visto in campo (potrebbe essere presente prima che possa essere individuato).
Ma cosa ci insegna l’agroecologia applicata nell’agricoltura conservativa/rigenerativa? Ci insegna a coltivare la biodiversità vegetale per nutrire tanto la biodiversità animale che quella microbica, per esempio. E quindi ecco le coccinelle che possono essere voraci di afidi, assieme a sirfidi e altri insetti utili, che in fondo chiedono solo un habitat rispettoso delle loro esigenze (scarso o nullo uso di insetticidi, presenza di fonti alimentari alternative, presenza di rifugi e ripari).
Ma ci insegna anche a lavorare con più piante nello stesso terreno, con piante diverse, complementari, che possono passarsi il testimone della fotosintesi e del flusso di carbonio liquido che alimenta quel misterioso e brulicante mondo microbico che pullula attorno alle radici, e per fortuna lavora e vive, e lotta assieme a noi contro invece altri organismi, per noi (e le nostre piante) dannosi. I BPA, i frumenti precoci conciati, sembrano trasgredire tutte le regole sia per i virus trasmetti da Polymyxa che da afidi, essendo seminati molto presto. Ma l’uso intelligente del “genio vegetale” e l’arte dell’agricoltura sembrano consentire di “scappare” all’infezione grazie alla confusione creata in campo, con tante piante, e alla robustezza delle piante seminate presto, che hanno una carica di nutrienti importante e anche stabilito delle solide relazioni a livello radicale.
Su questo tema, Francisco Dini-Andreote della Pennsylvania State University, ha poche settimane fa pubblicato un interessante articolo su Trends in Plant Science che indaga appunto il ruolo dei “microrganismi in associazione con le radici proteggere le piante dalle malattie soil-borne. Uno studio recente ha svelato come gli endofiti (batteri ma non solo) radicali operino come una seconda linea di difesa della pianta. Integrando concetti ecologici con principi di patologia vegetale fornisce un’approccio innovativo per manipolare e costruire un microbioma benefico per le piante.”
Ma è un discorso molto lungo da affrontare, quello del complesso mondo che si costruisce attorno alle radici e grazie ai loro essudati, e sono già andato troppo lungo. La prossima occasione, riprenderò! Intanto la prima concimazione è fatta, a breve si farà la seconda e poi, nelle parcelle della sperimentazione sulla concimazione con 4 tesi, un terzo intervento ad aprile. E non è finita…
Agricoltura conservativa e rigenerativa: perché abbiamo bisogno di un Brown New Deal!
Questo mese è saltata la puntata delle coperture vegetali e della conseguente capacità rigenerativa che possiedono. Troppi impegni ma soprattutto troppo freddo (nemmeno tanto, ma abbastanza) perché abbia senso vedere qualcuna delle coperture, là fuori, nel dettaglio. Nelle prossime settimane invece lentamente riprenderà l’attività, ormai il solstizio è lontano e rapidamente le temperature potrebbero salire.
È anche un periodo particolare, perché si sta cominciando a lavorare seriamente alla futura programmazione 2021-2017, anche se con un ormai scontato anno di ritardo. Con la nuova programmazione la Politica Agricola Comune avrà nuove regole, e così anche i vari PSR regionali, e tanti altri strumenti. A fine anno, data l’esigenza delle Regioni di chiudere a certi obiettivi, c’è stata una certa polemica relativa ad alcune Regioni, in particolare al sud, che hanno mancato platealmente gli obiettivi di spesa, e potranno vedersi tagliati fortemente i bilanci futuri. In generale, comunque, in pochi se la passano bene.
In questi giorni però si sta parlando anche di Green New Deal, di un nuovo movimento, sistema, complesso di azioni lanciato dalla commissione e dalla presidente von der Leyen che, sulla base di una sostenibilità ambientale maggiore, dovrebbe aiutare a mitigare i cambiamenti climatici, agendo sulle emissioni, e ridare impulso all’economia grazie a nuove produzioni. Ma siamo sicuri sia così? Ci sono diversi aspetti critici, non è facile svoltare un intero sistema economico in maniera netta, e quindi le cose saranno sfumate e graduali – e forse per fortuna.
Ma non di questo mi voglio occupare, non è il mio settore. Voglio lanciare qualche provocazione, nata dalla lettura e dall’ascolto di diverse persone ispiratrici e dal fatto che di agricoltura in quel Green Deal si parla (troppo) poco. E allora, dato che è tempo di pensare ai prossimi sette anni…
In realtà abbiamo un enorme bisogno di un Brown New Deal! Abbiamo bisogno di rigenerare i nostri suoli, di ristabilire un equilibrato e potente ciclo del carbonio, e un equilibrato e diffuso ciclo dell’acqua. L’effetto serra e l’acidificazione degli oceani generato dall’aumento della CO2 in atmosfera, ormai lanciata ben oltre le 400 ppm, e la concentrazione degli eventi piovosi, l’aumento dell’intensità delle precipitazioni unito a una loro rarefazione, insomma la diminuzione della disponibilità di acqua dolce per le necessità umane (e non solo): ecco in sintesi quali sono gli effetti più temuti che generano o sono generati dai cambiamenti climatici. E che cosa possiamo fare? No, non è l’auto elettrica la soluzione, almeno finché le emissioni per produrla e per produrre l’elettricità che la alimenta non arriveranno interamente da fonti rinnovabili e sostenibili.
Abbiamo il suolo! Abbiamo il nostro patrimonio più grande, frutto di millenni di lenta trasformazione dei sedimenti, delle rocce, ad opera di piante e microrganismi, che hanno generato quelle poche decine di terra fertile che come agricoltori ci troviamo a coltivare e curare.
Eppure questo patrimonio immenso è giorno dopo giorno sempre più degradato: la perdita di sostanza organica è il primo enorme disastro, a cui segue la perdita di attività e biodiversità biologica (microbica e non solo, pensate che rispetto ai quintali di lombrichi che potrebbero esserci in un suolo fertile e vivente, in un suolo degradato ce ne sono solo poche decine kg), e poi la perdita di struttura. E quando perdiamo la struttura, il ciclo dell’acqua collassa. E sempre con la perdita della struttura (la casa) e dell’attività biologica (gli abitanti), anche il ciclo del carbonio si inceppa. Qualcuno potrebbe pensare che non è un grosso problema, e invece no! Si tratta del problema centrale perché è grazie al carbonio della sostanza organica che riusciamo a trattenere i nutrienti che altrimenti le piogge intense e violente lavano via, ed è grazie al carbonio organico che viene sostenuta quell’intensa attività microbiologica che nutre le piante in una relazione che complessa è dir poco, in quella zona calda che è la rizosfera.
Do civilizations fall because the soil fails to produce – or does a soil fail only when the people living on it no longer know how to manage their civilization? Charles Kellogg, 1938
La funzionalità del suolo è centrale perché il ciclo dell’acqua funzioni. Ed è molto più complesso, dinamico e ignoto di quello che ci hanno sempre disegnato nei libri di scuola, con l’acqua che va in mare, evapora, forma delle nuvole che si spostano sulle montagne a pochi cm sulla pagina e innaffiano pianure e boschetti in cui scorrono i torrenti. No, gran parte delle precipitazioni si forma grazie a umidità accumulata proprio dall’evapotraspirazione del territorio, e i grandi movimenti hanno un ruolo sì importante ma non così dominante. Per cui se vogliamo che piova, dobbiamo consumare dell’acqua localmente. E se vogliamo consumare quell’acqua, grazie alle piante, bisogna che queste la trovino, e che quindi quella piovuta in precedenza si sia infiltrata. E senza struttura, in questo caso macro…porosità, senza una continuità verticale del suolo l’acqua non si infiltra. Esperienze di alcuni agricoltori americani mostrano tassi di infiltrazione, dopo 20 anni di agricoltura conservativa e rigenerativa, aumentati di decine di volte. Alcuni studi confermano che la conduttività del suolo saturo (saturata quindi la microporosità), il Ksat, aumenta fino a valori straordinari di 120 volte in un suolo in semina diretta sotto copertura vegetale! Se il tuo suolo funziona così, stai capitalizzando ogni singola goccia d’acqua che piove! E agisci anche sul clima del tuo territorio – presente la frescura di un viale alberato in città, d’estate?
Sempre verde e se possibile senza alcun disturbo del suolo!
Negli Stati Uniti il Mississippi sta alimentando un’enorme zona morta nel Golfo del Messico, a causa dei fertilizzanti drenati e portati in mare, che diventa asfittico per tutti i pesci che lo abitano. Stanno pensando di rivoluzionare la gestione dei cosiddetti watershed, i bacini di infiltrazione dell’acqua, che poi può andare in falda o nei fiumi, ma intanto si è pulita e soprattutto non dilava fertilizzanti. Quelli devono rimanere nei suoli, dove servono all’agricoltura! La soluzione? Seminare cover crop, e ovviamente rigenerare il topsoil, la porzione fertile e vitale del suolo superficiale, che grazie alla sua attività non lascia scappare niente e anzi ricicla tutto. E grazie alle conoscenze che abbiamo possiamo rigenerare un suolo migliaia di volte più in fretta dei tempi “naturali”.
Un po’ più a est, veniva speso 1 milione di dollari al giorno per pulire le acque del watershed di NYC mentre adesso ne spendono un decimo, grazie al cambio di gestione dei territori che servono a ricaricare questi sistemi idrici. Pensiamo anche ai milioni di euro spesi ogni anno in Italia per pulire strade, fossi e canali, e infine acque! a causa dell’erosione e del trasporto dei sedimenti più fini, fertili, e inquinati.
Più a sud-ovest, di nuovo negli USA, in Kansas, la multinazionale General Mills, un colosso dell’industria alimentare da oltre 16 miliardi di dollari di fatturato, dopo aver fatto frequentare ai propri agricoltori-conferitori alcune Soil Health Academy nella scorsa stagione, ora inizierà assieme ad UnderstandingAg un percorso di 3 anni per accompagnare la transizione ecologica di 260mila ettari coltivati a frumento, solo in quello Stato e solo per questo progetto. Altro che qualche migliaio di ettari interessati, sulla carta, dalle coperture vegetali in Pianura Padana…
Qualche leggera lavorazione del solo, per lo più estiva, può essere tollerata, soprattutto se serve a seminare subito una copertura vegetale.
Ma di frumento si parlerà la prossima volta. Rimanendo sulla struttura del suolo, non esiste lavorazione e non esiste macchina capace di creare quella fine aggregazione e struttura che solo radici e microrganismi possono fare.
Abe Collins, uno degli ispiratori di queste riflessioni in queste settimane, insieme a Christine Jones e lo straordinario Ray Archuleta, lo ha ribadito chiaramente, qualora ce ne fosse stato bisogno. Ma mi ha colpito il discorso che ha fatto sull’acqua, e in particolare mi ha fatto riflettere un passaggio. Quei soldi risparmiati dalla collettività, quei benefici che la comunità ha quando il ciclo dell’acqua e quello del carbonio funzionano, quanto valgono?
Agli agricoltori è stato imposto un prezzo di mercato dei loro prodotti, prezzo su cui non hanno alcuna influenza. E a fianco, vengono imposte anche sempre nuove regole, divieti, e adeguamenti, che costano soldi, fanno perdere competitività e talvolta costringono a chiudere. Non si discute, quindi, la correttezza di alcune importanti innovazioni in materia di prodotti fitosanitari, ad esempio. Ma se invece che imporre ancora pratiche, dare nuovi parametri entro cui vincolarsi per poter accedere a qualche piccolo premio, obbligassimo gli agricoltori a raggiungere certi risultati lasciando libertà di scegliere quali strumenti pescare dalla cassetta degli attrezzi?
Magari dando solo un inquadramento complessivo, ad esempio abolendo dalla superficie terrestre l’aratura! (ironico)
Però è necessario spiegare agli agricoltori che devono e possono produrre di più, grazie all’intensificazione ecologica, e che la sostenibilità si ottiene facendo di più e meglio, non soltanto facendo (qualcosa) di meno, e in particolare producendo di meno. Lasciare un margine di autonomia dovrebbe portare a un più veloce e forte raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità e sequestro del carbonio per il quale i suoli di tutto il mondo possono diventare soggetti centrali nella lotta contro i cambiamenti climatici.
Pensiamoci però. Se le esternalità positive – e non più negative come un tempo – generate da una buona agricoltura, quella del suolo vivente, venissero pagate e sostenute dalla collettività?
Le industrie, invece, che magari fanno fatica a ridurre oltre certi limiti le emissioni, potrebbero pagare dei crediti carbonio alle aziende agricole virtuose che invece stoccano carbonio, in misura compensativa. Il tutto potrebbe benissimo essere gestito e redistribuito attraverso la PAC. Utopia? No, la Svizzera già da qualche anno ha attivato un sistema simile, e la prossima programmazione dovrebbe almeno prevedere qualche forma pilota sul tema.
Ma è pronta, in Francia, dopo il marchio HVE – Haute Valeur Environnementale, anche l’etichetta «Au cœur des sols», pensata da APAD appositamente per i prodotti da agricoltura conservativa. Circa metà dei francesi non sa cosa sia questa pratica, mentre un’altra metà ne ha sentito vagamente parlare, ma circa due terzi sono disposti a pagare qualcosa in più (10%) per questi prodotti più sostenibili e salubri. È ora di uscire dall’anonimato, dopo oltre 25 anni di lavoro intenso, diffuso e creativo in campo!
Insomma, tra aiuto pubblico sostenuto dalle risorse risparmiate per correggere i danni ambientali delle pratiche scorrette, fondi privati che possono mettere finalmente in piedi un mercato dei crediti carbonio, e qualche piccolissimo sforzo da parte dei consumatori che possono sostenere gli agricoltori più virtuosi nella gestione dei loro suoli, ci sono nuove prospettive che fanno ben sperare e danno parecchio lavoro a chi si occuperà di gestire questi temi.
Quali sono gli aspetti su cui puntare è stato bene descritto la scorsa estate nel rapporto STOCKER DU CARBONE DANS LES SOLS FRANÇAIS, che ha fatto il punto dei primi anni di attività dell’iniziativa 4p1000. Nove punti ben dettagliati in cui si quantifica il potenziale per unità di superficie, la superficie interessabile e la quantità di carbonio sequestrabile per ciascuna azione, con i costi da sostenere per l’agricoltore e quindi una proposta di sostegno per tonnellata di CO2.
In conclusione sì, abbiamo bisogno di un Green Deal europeo, ma non dimentichiamo che è attraverso il suolo e la sua ricarbonizzazione, attraverso la Brown Revolution che passa la più importante azione di mitigazione e sequestro del carbonio che l’uomo può mettere in piedi.
Dopo quasi 8 anni di abbandono dell’aratro, in realtà 6 in questi primi metri, c’è ancora la cicatrice dell’ultimo solco di aratura, come si vede dal ristagno centrale (mentre a sinistra è la roggia che scarica l’acqua in eccesso, che in realtà arriva da alcune legnaie e cortili). La prossima estate livellerò quella buca e poi mai più ristagni anche su queste argille limose grazie all’attività incessante di radici e microrganismi!
We have a worldwide crisis, from nitrates in our watersheds, to depleted water supplies, flooding, topsoil degradation, desertification and declining human health. All of these things are directly related to ecosystem-function. It is time we quantify our ability to restore that function. Gabe Brown, co-fondatore di UnderstandingAg
Triticum aestivum – Sotto il ghiaccio dell’inverno, c’è vita?
Siamo entrati pienamente nel 2020, anche se le stagioni non hanno discontinuità, e soprattutto le piante e gli animali – la natura insomma non dovrebbe essersene accorta in maniera particolare. Le giornate hanno già da un po’ ripreso ad allungarsi, anche se le differenze sono impercettibili. Di sicuro, l’uomo ha fatto molto casino in questi giorni, e con le bruciature delle varie vecie si è conclusa la serie di queste festività. Ma perché il 2020? Perché è l’International year of plant health, e lavorando da anni sul soil health, non posso che accogliere positivamente questa notizia.
In fin dei conti, ci interessa un suolo sano e vivente, oltre che per i benefici ambientali, anche per la salute delle piante che coltiviamo. E piante in salute su un suolo fertile, significano cibo buono, sicuro e di qualità, soprattutto nutrizionale. Per fortuna, il cibo arriva ancora in larghissima parte dalle terre coltivate di tutto il mondo.
Probabilmente un po’ di ristagno idrico, probabilmente il colpo di freddo violento avvenuto nella prima metà di dicembre, dopo il periodo più piovoso dell’anno e seguito da un ritorno di temperature troppo tiepide: qualche clorosi si vede qua e là ma non è niente di preoccupante. Per chi volesse approfondire la vernalizzazione, invece, basta cliccare qui.
Ho scritto il mese scorso dell’importanza di uno dei macronutrienti, di solito quello più importante al momento della semina e nelle prime fasi di sviluppo, il fosforo. In questa fase di vernalizzazione, a cui seguirà una seconda metà di accestimento (una prima fase è avvenuta a fine autunno), comincia a giocare un ruolo importante l’azoto, e verso metà mese qualcuno comincerà i primi interventi, che per qualcuno invece saranno ritardati verso la fine o ancora a febbraio, quando inizieranno i primi segni di ripresa vegetativa. Ma la prenderò larga, e come per i due precedenti post, il ruolo della microbiologia che vive attorno alla pianta ha un ruolo fondamentale.
Questa volta però la porta d’ingresso nel mondo delle relazioni pianta-microbiota (della rizosfera ma non solo) è una malattia, che dà spesso sintomi proprio nei mesi invernali, anche se poi le manifestazioni più evidenti si hanno in primavera.
Si tratta del Mal del piede, una malattia dovuta a un complesso di patogeni, con sintomatologia simile, ma strategia di lotta comparabile. Il danno maggiore è la morte delle piantine, che può occorrere in seguito a gravi compromissioni del colletto e delle radici. Quindi fallanze legate alla mancata germinazione o morte precoce. E ancora danni dell’apparato radicale e vascolare con interruzione del flusso di acqua e nutrienti. In accestimento-levata si hanno imbrunimenti più o meno estesi delle radici e del culmo che possono interessare anche le zone internodali ed estendersi ai fasci vascolari delle foglie, con ingiallimenti e clorosi diffuse. I sintomi sono tendenzialmente diversi per patogeni diversi.
Tra le varie specie di Fusarium, Cercosporella o Rizhoctonia che possono concorrere al complesso del Mal del piede, mi soffermerò su Gaeumannomyces graminis, responsabile della cosiddetta Take all disease. Tipica delle monosuccessioni, dà necrosi e marcescenza di radici e colletto ricco di lesioni. Le radici imbrunite si staccano facilmente. Piante clorotiche e stentate; spighe erette e bianche con vegetazione verde. Rispetto in particolare ai Fusaria, questa è la forma più tipica, forse, per l’interessa particolare alle radici della pianta. Le malattie fungine dei cereali a paglia sono assimilabili a malattie monocicliche: espressione dell’inoculo presente in campo, in genere infettano in un’unica PHTW e non danno origine a cicli secondari, anche se per le fusariosi della spiga la difesa è basata su warning. Va ricordato che si tratta una popolazione complessa: il prodotto fitosanitario potrebbe squilibrarla.Non sembra ci sia una relazione diretta tra il mal del piede e la fusariosi della spiga, tanto che il primo, muovendosi in senso acropeto, sembra fermarsi poco sotto la spiga. Potrebbe esserci del legame con l’inoculo lasciato in campo?
Anche no. Dobbiamo abbandonare un approccio semplificato di sole relazioni causa-effetto e cominciare a pensare in maniera più complessa, come sono la natura e la biologia là fuori, in campo. Un interessante spunto di riflessione lo da John Kempf, dagli Stati Uniti, che nel suo ultimo articolo scrive, testualmente, che la presenza di infezioni di malattie che partono dal terreno non è correlata alla presenza di un organismo patogeno, ma all’assenza di microrganismi soppressivi. E riprende un lavoro di Paul W. Syltie che in How Soils Work del 2002, riporta come Gaeumannomyces graminis var. tritici, uno degli agenti causali del complesso del Mal del piede, sia attaccato dai batteri del suolo, in particolare nei suoli detti soppressivi, ovvero nei suoli dove il patogeno, benché presente, non dà luogo a malattia.
Questa caratteristica è espressa in una certa misura da tutti i suoli, ma è veramente efficace solo nei casi in cui la massa degli organismi benefici o neutrali riescano a sopraffare i patogeni in momenti critici della loro biologica, magari sottraendo alcuni nutrienti cruciali. In alcuni casi le relazioni tra microrganismi possono essere anche molto strette e specifiche, e in questo senso le biotecnologie potrebbero continuare a offrire soluzioni importanti.
Al genere Fusarium, il cui nome deriva dal latino fusus, come quello usato per tessere e di cui ricorda la forma, appartengono oltre mille specie ma solo qualche decina è dannosa. Sia batteri che funghi, tra cui anche alcuni Fusaria saprofiti, competono coi patogeni per le risorse, in particolare nutritive, e possono quindi agire come agenti di biocontrollo, oppure batteri come alcuni Pseudomonas possono attaccare direttamente G. graminis. Ed è interessante notare come questi Pseudomonas sia attivi particolare quando sia presente più azoto in forma ammoniacale che nitrica, per un cambiamento del pH della rizosfera in cui si concentrerebbe maggiormente questo effetto di bioprotezione, ma che potrebbe essere esteso anche a tutto il suolo, se questo viene rispettato fisicamente e biologicamente, grazie alla riduzione delle lavorazioni e all’intensificazione vegetale, che nutre e stimola tanto la quantità che la diversità microbica dei suoli.
Riguardo le potenti relazioni tra Pseudomonas, azoto e rizosfera, è uscito il 16 dicembre su Nature un lavoro ancora molto innovativo anche se se ne parla da anni, dal titolo “Control of nitrogen fixation in bacteria that associate with cereals”, in cui si studiano finemente le possibilità di indirizzare l’attività di alcuni batteri, simbionti e non solo, a fissare dell’azoto come accade nei noduli radicali delle leguminose ma in condizioni dette di free-living. I microrganismi utilizzati sono comuni nella rizosfera: si tratta di Azorhizobium caulinodans, Rhizobium sp. IRBG74 e l’epifita Pseudomonas protegens.
I primi risultati stanno permettendo di capire quali siano i limiti biologici che attualmente non permettono una nutrizione azotata continua e perfettamente compatibile con la biologia come accade nelle leguminose, anche in altre specie in cui questa simbiosi non avviene. Restiamo impazienti in attesa di vedere gli sviluppi di questi lavori per creare sistemi sempre più sostenibili e a impatto zero, ispirati interamente alla natura.Qualche getto di luce speranzosa per il futuro e per il 2020, anno internazionale della salute delle piante!
Science of SoilHealth: pensando una (nuova) rivoluzione
Ultimo post di quest’anno, difficile e caldo, l’ennesima anomalia, che di certo non sarà ricordato come uno dei migliori che ha dato sicuramente molto da imparare, soprattutto sul lungo periodo e grazie ad alcune preziose opportunità di lavoro.
Un anno segnato da ormai sempre più comuni disastri climatici, ripensando al secco e (relativamente) caldo inizio di primavera, a cui è seguito un periodo freddo e piovoso, come queste ultime settimane, circa 6 pesantemente piovose, tra novembre e metà dicembre. Ma non è mancato il caldo, da quello insopportabile di fine giugno, con alcune riproposizioni agostane, e poi ancora il caldo anomalo di questo autunno, che per fortuna è stato mitigato dalla forte piovosità. Una instabilità climatica che desta sempre maggiori preoccupazioni per la gestione e la vivibilità di un territorio (e i telegiornali ormai ci hanno terrorizzato con le immagini di torrenti in piena e frane) ma anche per la sostenibilità economica dell’attività agricola, insomma per la redditività agricola, che unisce – purtroppo, in questo caso – aspetti ambientali e agronomico/produttivi.
Le foto di uno degli ultimi, bellissimi, tramonti del 2019, accompagneranno quest’ultima riflessione, assieme alle foto del primo campo su cui ho cominciato a lavorare, ormai da 8 anni senza aratro e da oltre 2 senza lavorazioni. La sostanza organica, al centro della fertilità di un suolo, è salita in 3 anni dal 2 al 3%, nell’orizzonte superficiale. E dall’anno prossimo si entrerà con tutta probabilità in copertura permanente con l’utilizzo delle CDI, coperture a durata indeterminata.
Sta diventando sempre più urgente agire per ripristinare degli equilibri agro-ambientali che permettano l’esistenza dignitosa dell’attività agricola su di un territorio che sia al contempo vivibile per una popolazione anche non agricola, e che tutti usufruiscano di questo paesaggio che oggi è conservato dall’agricoltura, mentre purtroppo in molti casi è plasmato da esigenze urbanistiche e infrastrutturali che, anche quando sono un male necessario, lasciano comunque un segno indelebile nel paesaggio.
In un recente articolo uscito dall’Università del South Dakota, intitolato “Regenerative agriculture: merging farming and natural resource conservation profitably”, Lecanne e Lundgren hanno messo in correlazione il contenuto in sostanza organica di un suolo e il reddito netto ricavato dalla coltivazione di quella terra. A ennesima conferma che l’approccio rigenerativo della semina diretta sotto copertura vegetale è doppiamente performante.
Questo lavoro compara 76 parcelle di mais, negli Stati Uniti, dove la coltura rappresenta il 40% delle superfici, con vaste monocolture, rotazioni estremamente semplificate che portano il sistema a dipendere fortemente da input esterni. Le parcelle di studio sono condotte con due approcci:
agricoltura rigenerativa, con utilizzo di coperture vegetali multi-specie, assenza di lavorazioni del suolo e di insetticidi e inserimento del pascolo razionale, in cui viene promossa la biodiversità e la salute del suolo, producendo alimenti ricchi in nutrimento;
in agricoltura convenzionale, basata sulle lavorazioni del suolo, con l’utilizzo di insetticidi, senza copertura del suolo né animali al pascolo.
Analizzando la quantità di sostanza organica, la popolazione di insetti fitofagi, la resa e il reddito netto colturale, i risultati sono stati sorprendenti.Nonostante i trattamenti in concia del seme, a cui in certi casi è stato aggiunto un ulteriore trattamento, la popolazione di insetti fitofagi (in particolare afidi) era 10 volte maggiore nelle parcelle convenzionali rispetto alle tesi conservative. In particolare, la popolazione di insetti dannosi è inversamente proporzionale alla popolazione globale di insetti presente nelle parcelle. E sembra che la sospensione degli insetticidi sia solo una delle azioni che portano a questo risultato.
Le rese sono mediamente più basse in agricoltura conservativa/rigeneratrice rispetto alle comparate convenzionali, ma i costi in questo caso sono risultati da 2 a 3 volte più alti, quindi il rendimento delle parcelle condotte con l’approccio più agroecologico è risultato del 70% più alto, tenuto conto anche dell’apporto animale.
La cosa rivoluzionaria di questo lavoro è stato verificare come il reddito netto non sia correlato alla resa ponderale, ma piuttosto invece al contenuto di sostanza organica, e in misura minore al compattamento del suolo.In sostanza, più un suolo è fertile, più alta la biodiversità e più il sistema viene gestito con il minimo impatto, e maggiore è il reddito ricavato da quella terra.E migliore può essere anche la qualità nutrizionale di quel prodotto (ah! ce la pagassero…): certo su un cereale magari è più difficile valorizzarla rispetto a un prodotto ortofrutticolo, ma vale la pena perservare.
Senza addentrarmi troppo in questo dossier, riporto solo alcuni spunti che Christine Jones, ricercatrice di fama internazionale, attiva nella divulgazione di forme di agricoltura innovativa, rigenerativa e conservativa, e inventrice del concetto di “carbonio liquido”, ha riassunto nel suo articolo “Light Farming: Restoring carbon, organic nitrogen and biodiversity to agricultural soil”, dove parla del legame tra soil health e food health.Se negli ultimi 150 anni i suoli coltivati (“arabili”!) hanno perso dal 30 al 75% del loro carbonio, aggiungendo le corrispondenti migliaia e migliaia di tonnellate di carbonio nell’atmosfera, la ricchezza nutrizionale di molti alimenti è calata parimenti.
David Thomas nel 2003 in “A study on the mineral depletion of the foods available to us as a nation over the period 1940 to 1991” (Nutrition and Health, 17) ha pubblicato assieme al Ministero per l’agricoltura britannico i risultati di un lavoro condotto su 27 alimenti vegetali e 10 tipi di carne, trovando un abbassamento del calcio del 46%, del ferro del 27% e infine del magnesio del 24%. E, non secondario, sono cambiati alcuni rapporti tra gli alimenti, e per esempio sappiamo bene nelle piante quanto siano importanti anche gli equilibri tra i vari nutrienti.E, parlando di piante, è vero che per certi versi c’è stato un effetto diluizione dovuto a rese in molti casi moltiplicate per fattori importanti, ma se il suolo non presenta carenze quantitative, perché allora le presentazione le piante e i prodotti alimentari che ricaviamo poi?
«Non ci può essere vita senza suolo e dei suoli senza vita: si sono evoluti insieme!» (Charles E.Kellogg, USDA Yearbook of Agriculture, 1938)
E il segreto sta proprio nella vita del suolo. Come agricoltori, come coltivatori dell’ager, abbiamo in mano la vita e la morte di un suolo: è questione di scelte.
Tocca a noi – chiude un articolo di AgroLeague che ha segnalato scritto di uno dei lavori citati – tocca a noi restaurare l’integralità del suolo, la fertilità, la struttura, la riserva idrica, senza provare a guarire solo i sintomi, ma attraverso le nostre scelte di gestione della produzione.
E Lecanne e Lundgren, invece, ribadivano che i loro risultati hanno fornito le base per un nuovo dialogo su sistemi agrari basati sull’ecologia che possono produrre al contempo cibo e conservare la nostra risorsa fondante: due fattori troppo spesso contrapposti in un sistema di produzione alimentare semplificato. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un passaggio a un livello superiore dell’intero sistema agro-aziendale, perché applicare semplicemente una o due pratiche individuate tra quelle rigeneranti, non produrrà gli effetti ricercati.
Non mi resta che augurare a tutti quelli che mi hanno letto in quest’anno, e almeno un po’ su(o)pportato, un buon 2020, che prenda presto e con un importante salto di livello il testimone di questo 2019. Grazie, e per chi lo vorrà ci si vede nel prossimo anno!
“In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda.Sia che l’agricoltore coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo, l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione.” Erich Fromm
Riporto il link di uno dei primi articoli con cui invece è cominciato questo 2019, QUI
Triticum aestivum – Verso un futuro con più luce?
Dicembre è nel vivo, le ore di luce sempre meno anche ormai sino ad arrivare al solstizio imminente le differenze sono appena percettibili: se vedessimo in una curva l’andamento delle ore di luce sulle ore di buio, ora sarebbe quasi piatta.
Picchi impressionanti invece hanno avuto le curva di piovosità più o meno in tutta Italia, con una quantità di acqua che supera abbondantemente i 200 litri per metro quadro in un mese. Sempre lui, novembre, e di nuovo come qualche autunno fa, anche allora uno dei più piovosi, anche il novembre più caldo della storia. Quella della temperatura media globale è anch’essa una curva che si impenna poco, ma che inesorabilmente sta crescendo e alle spalle si lascia invece una instabilità e una estremizzazione degli eventi di cui il 2019 con la sua fine inverno caldo e asciutta, la primavera drammaticamente piovosa e fredda, un giugno dal caldo asfissiante e poi un’estate incostante, un autunno caldo e asciutto che ha passato il testimone all’inverno appunto con lo scorso novembre.
L’emergenza è stata tutto sommato regolare, forse un po’ lenta, ma la posizione rialzata ha salvato le parcelle monovarietali, mentre nel resto del campo, sia seminato a frumento che ad avena, mi ha sorpreso la capacità di tenere sotto l’azione battente di alcune piogge più violente di questo mese, e la capacità di drenaggio del suolo e della sua struttura, nonostante la minima lavorazione che pensavo l’avrebbe in gran parte distrutta. Ma il lavoro fatto in oltre due anni per fortuna non viene totalmente distrutto da uno o due passaggi.
Gestire bene l’acqua, gestire bene la struttura, lo ricordo, significa gestire bene la fertilità del suolo, e quindi il potenziale produttivo delle nostre colture: innanzitutto conserviamo nel campo la componente solubile della fertilità, e in secondo luogo manteniamo attivi i processi rizosferici di mineralizzazione ed esplorazione della banca della fertilità rappresentata dalla sostanza organica. In queste prime fasi oltre a una minima parte giocata dall’azoto, il fosforo è l’elemento cruciale. Il fosforo elementare è estremamente reattivo e il suo nome è legato alla luce: infatti combinandosi con l’ossigeno emette una tenue luminescenza (da cui il suo nome, φωσφορος, cioè phosphoros, che in greco significa “portatore di luce”).
Questo macroelemento serve ad aumentare lo sviluppo radicale; mitigare/equilibrare l’azione dell’azoto (fa anticipare la maturazione); infine a influenzare positivamente la granigione. La carenza riduce accestimento e accrescimento (foglie apicali rossastre o generalmente pigmentazione più scura delle foglie), conducendo quindi a rese più contenute e ritardo nella maturazione. Spesso le colorazioni rossastre si manifestano a fine inverno, soprattutto se piovoso, e questo ancora una volta ribadisce l’importanza di un corretto funzionamento del suolo affinché non ci siano interruzioni nella nutrizione di questo elemento tra i più difficili da aggredire.
In relazione al fosforo ha fatto scuola la simbiosi fungina con le micorrize, che anche se coinvolge circa l’80% delle piante, nei suoli agrari non è più così scontata. La presenza e l’attività delle micorrize può aumentare del 40% il fosforo nella paglia, del 30% l’azoto nella granella e del 25% l’harvest index, ovvero il rapporto tra prodotto agrario utile e paglia (nella fattispecie).
Parcella riproduzione miscuglio di 180 vecchie varietà
La coltivazione in piccole parcelle, vicine tra loro, mette in evidenza più facilmente una certa differenza varietale, e come si nota chiaramente a fine ciclo, con colori e morfologie delle spighe anche molto diverse, anche nelle prime fasi rapidità di emergenza, portamento e capacità coprente sono fattori che possono generare un comportamento complessivo della pianta molto diverso. E gli effetti sulle infestanti, o la capacità di affrancarsi prima dell’inverno e ripartire più vigorosi in primavera, possono essere significativi.
La pioggia caduta copiosa per settimane ha avuto uno dei suoi picchi il 24 novembre
Nello studio della diversità varietale, in particolare in ottica di miglioramento genetico e varietali, dei tratti morfologici valutabili visivamente possono assumere un ruolo importante, nonostante la soggettività e la richiesta di tempo. Ecco che le tecnologie digitali possono venire in aiuto rendendo più veloce e oggettiva la valutazione, utilizzando delle “semplici” fotografie, o meglio, sfruttando analizzando in maniera altamente tecnologica come, in foto, diverse piante rispondano alla luce visibile. Anche limitandosi ad un numero limitato di caratteri, mancano strumenti efficaci e validati, ed ecco che un lavoro dello scorso aprile del gruppo australiano di Walter e colleghi dell’Università di Adelaide pubblicato su Frontiers in Plant Science ha messo a punto un processo funzionale per analizzare le immagini acquisite sulle piante osservate.
Questo obiettivo è stato raggiunto attraverso diverse fasi: partendo da alcune prime sperimentazioni in serra allo scopo di provare la fattibilità e dimostrare la fondatezza dei concetti costituenti del loro lavoro, all’applicazione di questi metodi a prove di campo acquisendo l’immagine direttamente da parte degli operatori, per finire con la creazione di infrastrutture ad alta processività per acquisire le immagini in campo.
La validazione iniziale ha mostrato una forte correlazione (r= 0.95) tra valutazione visiva e digitale della clorosi fisiologica in serra, e anche nel trasferimento in campo erano buone le correlazioni sempre per la clorosi, per la senescenza e gli attacchi di septoriosi. Ma oltre alla solidità della tecnica, l’ottimizzazione di campo per l’acquisizione di immagine ha permesso l’acquisizione di immagini su 7400 parcelle all’ora!
Le immagini di una prova di miglioramento genetico raccolte con questa tecnica sono state analizzate per la copertura della chioma in due momento, con di nuovo delle correlazioni molto forti tra valutazione visiva e digitale, con ereditabilità simile. Questo lavoro ha permesso di definire e conoscere meglio le potenzialità di sistemi ad alta processività nello studio digitale del fenotipo, applicato a caratteri particolari, e dentro programmi di miglioramento genetico. Inoltre è stata affrontata la possibilità di introdurlo in programmi di miglioramento già in essere senza stravolgerne l’impianto sperimentale e aprendo al potenziale utilizzo in molti altri programmi di miglioramento genetico e di studio delle piante.
In queste ultime foto, ancora alcuni dettagli delle parcelle e delle ridotte zone dedicate ai cereali a paglia quest’anno. Ma in particolare nelle due foto qua intorno due bei campi di frumento, quello sotto in particolare un mio confinante (sopra in alto si intravede il verde della mia copertura vegetale dopo mais, ma questo è un altro discorso e si vedrà a primavera…). In genere, l’autunno così caldo e asciutto e le piogge inizialmente poco aggressive hanno permesso anche ai terreni arati di comportarsi discretamente, per ora. Quantomeno visivamente!
Dicembre è insomma anche una scusa per guardarsi indietro, e poi guardare avanti, grazie al ponte verde che abbiamo seminato là fuori e che ci porterà di là, quando tornerà a esserci più luce in queste – finalmente, un po’ – fredde giornate.
Fonti:
Pellegrino et al. (2015) Responses of wheat to arbuscular mycorrhizal fungi: a meta-analysis of field studies from 1975 to 2013. Soil Biology and Biochemistry 84, 210-217.
Walter J, Edwards J, Cai J, McDonald G, Miklavcic SJ and Kuchel H (2019) High-Throughput Field Imaging and Basic Image Analysis in a Wheat Breeding
Programme. Front. Plant Sci. 10:449.
Probabilmente è superfluo indicare cosa sia il sovescio, ma nel caso qualcuno non lo sapesse, possiamo riassumere molto brevemente dicendo che il sovescio è una pratica agronomica migliorativa, consistente nel coltivare specie erbacee, principalmente leguminose o graminacee, per poi interrarle. A seconda della specie adottata si avrà un risultato diverso. Per chi è a digiuno di questo argomento, troverete molte informazioni utili in questo articolo “E’ tempo di sovescio: Cosa, Come, Quando e Perché?”
Perché coltivare il sovescio nel vigneto?
L’obbiettivo primario del sovescio nel vigneto è proprio quello di migliorare la fertilità del terreno, ma non sono da meno anche molti altri benefici come il controllo delle erbe infestanti, il contenimento dell’erosione, il miglioramento del contenuto di sostanza organica, della struttura e della porosità del suolo, favorendo la biodiversità e l’apporto di microelementi, ecc. Ricordiamoci che l’impiego del fertilizzante disinquinante Bio Aksxter® rende maggiormente produttivo l’impiego del sovescio, ottimizzando l’azione di questa pratica di concimazione verde. Il suo impiego regolare, bonifica progressivamente il terreno liberandolo dai residui dei trattamenti con rame, zolfo ed altre sostanze, aumenta la capacità di umificazione e la dotazione di sostanze nutritive nobili incorporate anche tramite il sovescio.
Il sovescio di favino nel vigneto Chianti
La tecnica del sovescio in viticoltura
È importante, appena dopo la vendemmia, seminare tra i filari specie adatte alsovescio. In viticoltura, il sovescio ha gli stessi vantaggi degli altri settori agricoli.
Quand’è il periodo migliore per seminare il sovescio nei nostri vigneti?
L’autunno è il periodo migliore per la semina del sovescio da interrare in primavera.
Quand’è il periodo ottimale di interramento del sovescio?
Per una maggior quantità di micronutrienti e sostanza organica nel suolo, il momento migliore per l’interramento del sovescio nel vigneto è quando le piante sono in pre-fioritura o si vedono spuntare i primi fiori chiusi. In questa fase, infatti, le piante hanno raggiunto il loro massimo sviluppo ed i tessuti vegetali hanno un contenuto equilibrato in fibre e proteine che ne permetterà una più rapida degradazione. Inoltre, lo sfalcio della coltura da sovescio in questo momento ne evita lo sviluppo successivo che altrimenti diverrebbe infestante per il vigneto.
Quali piante seminare per il sovescio?
Leguminose: grazie all’attività azotofissatrice, consentono un apporto di azoto nel terreno, specie se con apparto radicale profondo. Hanno poco apporto di sostanza organica, in quanto interrandole in fioritura o pre-fioritura, sono costituite da una biomassa composta dal 70-80 % d’acqua.
Favino
Trifoglio incarnato
Veccia comune
Lupino
Lenticchia
Fagiolo
Pisello da foraggio
Pisello
Fava
Crucifere o Brassicacee: hanno un indubbio vantaggio , e cioe’ quello di essere nematocide, cioe’ di produrre una sostanza che abbatta i nematodi, pericolosi parassiti del terreno, molto dannosi per le colture orticole e non solo.
Colza
Senape
Ravizzone
Graminacee: a differenza delle leguminose, sono ricche di fibra (cellulosa ecc) ed in tempi più lunghi forniranno materiale per la formazione di sostanza organica e Humus. Sono utilizzate per il sovescio nel vigneto in quanto hanno una rapida crescita e una ridotta esigenza d’acqua.
Avena
Segale
Orzo
Sorgo
Il sovescio di favino nel vigneto
Favino da sovescio nel vigneto
Nella gestione dei vigneti viene spesso usato il favino. Il favino si semina a settembre e lo si interra in aprile al momento della fioritura o anche prima, dipende dal tempo! Nella maggior parte dei casi, il sovescio nel vigneto eseguito a file alternate, rappresenta una delle migliori strade per aumentare le produzioni e avere uve più sane. Infatti, il sovescio viene spesso seminato un filare sì e uno no in modo che nel filare libero sia possibile effettuare i lavori di potatura del vigneto. C’è chi semina le erbe da sovescio l’anno prima di piantare le barbatelle e dopo aver effettuato l’interramento le mette a dimora, sapeste che risultati! Leggi: “Dalle barbatelle al vigneto: per la viticoltura di qualità”.
Concimazione autunnale del vigneto: sovescio + trattamento preinvernale
Bisogna sempre tenere a mente che la fase di riposo vegetativo durante il periodo invernale è determinante per il risultato produttivo dell’annata seguente in quanto sia nel terreno che nella pianta avvengono processi molto importanti.
Il risultato di un sovescio è comunque da considerarsi un intervento ammendante e non fertilizzante, per questo il trattamento preinvernale con Bio Aksxter® è basilare per il potenziamento del programma della pianta e permette di affrontare meglio sia la ripresa vegetativa che le successive fasi del ciclo produttivo; inoltre, consente il superamento di tutte le condizioni critiche quindi una maggior resistenza agli stress termici, in particolare alle gelate, minori fenomeni di disidratazione in caso di inverni ventosi, resistenza agli attacchi patogeni.
Il trattamento preinvernale è fondamentale per il raggiungimento dei massimi risultati produttivi e può essere fatto in qualsiasi momento tra la fine del ciclo produttivo e la metà di dicembre.
E se di tanto in tanto vi ronzano in testa domande del tipo: “Come posso far fronte ai continui alti e bassi della mia produzione vitivinicola? Come posso garantirmi un reddito adeguato e costante nonostante il clima sempre più anomalo? Come faccio a ridurre gli attacchi patogeni?”, beh, basta cominciare oggi con il trattamento preinvernale e le risposte saranno ben visibili già a partire dall’anno prossimo.